Caso ex colonia Murri: fra immobilismo e opposizione miope
L’ex colonia Murri di Bellariva è il simbolo degli ultimi 30 anni di tormentata storia di questa città, dove non sono mancate le idee e i progetti di cambiamento, ma tutti si sono arenati su questo o quello scoglio. A questa, oggi, si aggiunge una valenza simbolica ulteriore. Perché qualcuno dei protagonisti della vicenda Murri si muove ancora nell’arena pubblica della politica, e si muove esattamente come allora, dandoci la possibilità di ragionare su un particolare modo di fare opposizione.
Ma veniamo alla nostra storia. Il suo ultimo atto è il fallimento della società Rimini & Rimini facente capo al gruppo Valdadige fondato dall’imprenditore riminese Antonio Benzi, la stessa società che all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso aveva firmato con il Comune di Rimini la convenzione per il recupero dell’ex colonia.
Questa volta a far chiudere il cantiere è stata la crisi dell’edilizia che ha toccato pesantemente anche un gruppo solido come Valdadige. Nel 2011, dopo che quattro anni prima, nel 2007, era stato siglato un accordo di programma, il consiglio comunale era riuscito finalmente ad approvare un piano particolareggiato di iniziativa privata volto alla riqualificazione urbana e turistica di Bellariva, all’interno del quale aveva trovato posto anche il recupero dell’ex colonia. Ma il cantiere si è fermato, per così dire, ai preliminari, e già due anni dopo rimbalzavano sui giornali le notizie sulla crisi di Valdadige, che hanno poi avuto l’esito temuto: un nuovo stop al progetto.
All’accordo di programma del 2007 si era arrivati dopo un iter durato praticamente una quindicina d’anni, ovvero da quando un’ordinanza dell’allora assessore regionale all’urbanistica bloccò il cantiere che la società Rimini & Rimini aveva aperto da circa un anno. Nei giorni scorsi il presidente di Dreamini Bruno Sacchini nel fare l’elenco dei progetti finiti nelle secche dell’immobilismo aveva citato anche la Murri, con riferimento al recente fallimento della società. Ma i guai dell’ex colonia hanno un’origine più lontana e al suo fianco Sacchini aveva uno dei protagonisti di quella stagione, il suo vice Mario Ferri.
Bisogna riandare agli anni Novanta nel breve tempo in cui la città era governata dalla giunta Moretti-De Sio, con una maggioranza di pentapartito (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) e il Pci (poi Pds) all’opposizione per la prima volta dal dopoguerra. Fra i progetti di punta della nuova amministrazione c’era appunto il recupero dell’ex colonia Murri, che doveva diventare un centro commerciale e di servizi avanzati affacciato sul lungomare della città. I giornali dell’epoca, facendo riferimento alla convenzione con Rimini & Rimini, parlano del primo tentativo di collaborazione fra pubblico e privato, un esperimento inedito (e forse per questa ragione contrastato).
Fra i consiglieri di opposizione del Pci-Pds sedeva anche Mario Ferri, di professione commercialista, che cominciò ben presto a sparare contro il progetto. Non tanto sulle cose da fare quanto, da commercialista, sulla fatturazione intercorsa fra Comune e Rimini & Rimini, a suo dire non corretta. Per tutto il 1991 si sviluppa un acceso dibattito che inevitabilmente non si ferma alle questioni fiscali ma investe il rapporto pubblico-privato, con l’accusa che la convenzione sarebbe stata tropo sbilanciata in favore degli interessi privati, e comprende anche le norme urbanistiche, in particolare il piano paesistico regionale, che sarebbe stato violato. Protagonista della battaglia contro la Murri è un altro consigliere comunale, Sergio Gambini, che ricopriva anche l’incarico di segretario del Pci-Pds. Se la Murri per l’amministrazione era una sorta di fiore all’occhiello, per la sinistra all’opposizione era il cavallo di battaglia principale contro la giunta di pentapartito.
Della faccenda finì per occuparsi anche la magistratura: il pm Roberto Sapio aprì un’inchiesta per abuso di ufficio. Nel gennaio del 1992 furono spediti 47 avvisi di garanzia a tutti gli amministratori e consiglieri comunali. Il magistrato sosteneva che non si doveva conferire l’incarico a Rimini & Rimini tramite trattativa privata, che la società aveva solo vantaggi e non oneri, che non c’era l’interesse pubblico visto che si trattava di creare un centro commerciale.
Al Giudice per le indagini preliminari Vincenzo Andreucci viene anche chiesto di emettere un’ordinanza di sospensione del cantiere. Ma Andreucci nel giugno del 1992 rigetta la richiesta e nel dicembre dello stesso anno decide per l’archiviazione. Nell’uno e nell’altro caso le motivazioni sono le stesse: il Comune, trattandosi di intervento complesso, ha fatto bene a seguire la trattativa privata, l’interesse pubblico sta nel fatto che si toglie di mezzo un rudere dalla zona turistica, non c’è violazione del piano paesistico, anche perché le norme della Regione risultano inapplicabili e il piano non contiene neppure clausole di salvaguardia per le ex colonie.
Tutto a posto, quindi? Nemmeno per sogno, anche perché nel frattempo i consiglieri comunali del Pci-Pds, con in testa Ferri e Gambini, avevano presentato un esposto alla Regione. Pochi giorni dopo la sentenza di archiviazione del Gip Andreucci, l’assessore regionale Bottino firma l’ordinanza che decreta lo stop al cantiere. A riceverla in Comune non c’è più la giunta Moretti-De Sio, ma la nuova giunta guidata dal sindaco Giuseppe Chicchi che vede Mario Ferri, assessore al bilancio, e Sergio Gambini assessore all’urbanistica. È una situazione imbarazzante che emerge in modo clamoroso quando di lì a poco si tratta di votare il bilancio consuntivo del 1991, contenente le famose fatturazioni indigeste a Ferri. Il quale va a Roma al Ministero delle Finanze dove gli leggono il parere a suo tempo chiesto dalla giunta di pentapartito secondo il quale la fatturazione è regolare. E così il Pds si trova ad approvare un bilancio contenente l’operazione contro cui, tramite Ferri, si era scagliato nei mesi precedenti.
Dopo l’ordinanza regionale si fanno molte congetture sulla possibilità o meno di proseguire il cantiere: si torna a una versione precedente del progetto, che non violerebbe il piano paesistico? Si fanno i lavori in quelle parti dell’area in cui non cade la scure del piano? La fine della storia è che il progetto resterà bloccato e quando si era riusciti a farlo ripartire è arrivata la crisi del mercato edilizio a stopparlo nuovamente.
Perché questo esercizio di memoria? Non certo per rivangare vicende che ormai appartengono alla storia. La vicenda Murri, oltre ad essere destinata a restare (forse per sempre) un’icona dell’immobilismo, è anche esemplificativa di un modo di fare opposizione che si affida più agli esposti o alla via giudiziaria, che alla costruzione di una credibile alternativa. I protagonisti dell’opposizione al progetto Murri ebbero alla fine partita vinta, ma la loro cocciutaggine ragionieristica a cosa ha portato in fin dei conti? Al blocco di un progetto di riqualificazione che aveva addirittura passato indenne anche l’esame della magistratura in un periodo di alta tensione (era già cominciata la stagione di Mani Pulite). La memoria storica può essere d’aiuto nel momento in cui la città si prepara al confronto elettorale del 2016 e si vagheggia l’esigenza di un “partito della città” che ponga il bene comune come elemento unificante. Per far prevalere il bene comune le scorciatoie degli esposti e dei ricorsi, le vie “giustizialiste” possono eccitare l’animo dei tifosi ma corrono il rischio di lasciare una terra bruciata in cui non cresce più nulla. E infatti dopo più di vent’anni la Murri è ancora ferma al palo.