Cultura. Il Trecento riminese a Ravenna, spazio sacro e pittura
La chiesa medievale di Santa Maria in Porto Fuori a Ravenna fu distrutta da un bombardamento aereo alleato il 5 novembre 1944. La squadriglia americana aveva l’obiettivo di distruggere alcuni edifici collocati vicino alla chiesa e, forse, lo stesso campanile che con la sua altezza costituiva un punto di osservazione particolarmente efficace e molto vicino al fronte.
Probabilmente è ad essa che si riferiscono le parole di San Pier Damiani nel Paradiso di Dante riguardo alla casa di Nostra Donna in sul lito adriano (Paradiso XXI), dove la Nostra Donna è la Madonna greca, patrona di Ravenna, bassorilievo bizantino del V secolo che secondo la tradizione fu trovata sulla spiaggia nella prima domenica dopo Pasqua del 1100, portata dal mare dalla lontana Costantinopoli.
Secondo Alessandro Volpe, curatore della ricostruzione digitale della chiesa e di una mostra allestita nel 2016 proprio a Ravenna, “se la casa di Nostra Donna coincidesse in effetti con la chiesa di Santa Maria in Porto Fuori, ossia con il luogo che Pietro Peccatore aveva eretto per ospitare la miracolosa immagine della Vergine orante, che oggi si trova nella basilica di Santa Maria in Porto dentro le mura della città, il riferimento dantesco sarebbe da collegarsi al soggiorno ravennate del poeta, che si consumò tra gli anni in cui la chiesa fu riedificata (1314) e quelli, successivi alla morte del poeta, in cui essa fu decorata da un pittore di origine riminese (1329-1333).”
Purtroppo questi affreschi si sbriciolarono sotto le bombe e anche le parti che si salvarono, dopo il distacco dall’intonaco e il loro restauro, furono rubate nel 1996. Per quanto riguarda l’attribuzione del ciclo pittorico, sempre secondo il Volpe, “Pietro andrebbe considerato solo il responsabile nominale di una decorazione a cui egli non avrebbe messo mano, completamente affidata, quindi, alla sua bottega e a un pittore in particolare, che non potrebbe essere nominato in altro modo che come il Maestro di Santa Maria in Porto Fuori. (…) Il grande pittore deve considerarsi il mentore, il punto di riferimento del maestro di Porto Fuori, che si esprimeva piuttosto con una verve, un appassionato gusto per una narrazione spigliata e diretta, un prosaico e divertito senso della comunicazione di sagace inventiva, che Pietro, molto più sofisticato, non conosceva.”
Proprio la chiesa ravennate sarà al centro dell’incontro che lo storico dell’arte Fabio Massaccesi dell’Università di Bologna terrà Venerdì 19 alle 17,30 a Palazzo Buonadrata, terzo appuntamento della rassegna “I Maestri e il Tempo”, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, dal titolo “Spazi del Sacro. La Scuola Riminese del Trecento a Santa Maria in Porto Fuori”.
Oltre al ciclo pittorico, l’incontro indagherà i motivi e i riferimenti progettuali della struttura della chiesa, nella quale il rifacimento absidale d’età trecentesca potrebbe avere come modello quello della chiesa di Sant’Agostino di Rimini.
“Come doveva essere usufruito dai pellegrini, laici e devoti lo spazio interno della chiesa in età medievale? Chi poteva vedere gli affreschi di Pietro da Rimini dell’abside e delle due cappelle laterali, ancor prima dei rimaneggiamenti d’età moderna e della distruzione bellica? – anticipa il relatore, Fabio Massaccesi – Il mio studio di prossima pubblicazione è l’esito di un lungo lavoro d’intreccio di dati documentari editi e non, fonti e fotografie, dove la ‘regula portuense’ - scritta dal fondatore Pietro degli Onesti detto Peccatore quale norma per la vita comunitaria - ha confermato quanto da me ricostruito. Dalla ‘regula’ si evincono infatti in modo chiaro le indicazioni di come ci si doveva comportare all’interno della chiesa, con particolare riguardo al coro, che rivestiva un ruolo nodale nella vita comunitaria.
Migliorando la comprensione dell’assetto spaziale interno di Porto Fuori si è potuto avanzare l’ulteriore ipotesi che la parte absidale della chiesa possa dipendere da quella della chiesa riminese di Sant’Agostino. Quest’ultima potrebbe essere stata presa infatti a modello per l’addizione trecentesca della zona absidale di Porto Fuori, come alcuni indizi documentari fanno sospettare. Una ricostruzione architettonica che aiuta indefinitiva a comprendere maggiormente la funzione del ciclo pittorico e del suo ruolo “pubblico” e “privato”. Con l’esempio di Santa Maria in Porto Fuori, la città di Ravenna nel corso del Trecento sembra dipendere da Rimini, dimostrando di essere una città comunque vitale e ricca di occasioni per gli artisti forestieri”.
Cultura. Centenario della Grande Guerra, mostra ed eventi a Santarcangelo
Inaugura sabato 20 ottobre la mostra “Arriverà quel giorno di pace e faremo una gran festa” che l’Amministrazione comunale, gli istituti culturali e le associazioni del territorio dedicano alla Prima Guerra Mondiale nel centenario dalla sua conclusione.
L’esposizione, che sarà inaugurata dal sindaco di Santarcangelo sabato 20 ottobre alle ore 11 nella galleria Baldini della biblioteca, si compone di oggetti, documenti, cimeli, foto, lettere e altre testimonianze dell’epoca raccolte attraverso una chiamata pubblica rivolta a tutti i santarcangiolesi. La mostra sarà visitabile fino a domenica 11 novembre negli orari di apertura della biblioteca.
Cominciano invece lunedì 22 ottobre, per proseguire fino a mercoledì 24, le letture in classe all’interno delle scuole elementari che hanno aderito alla quinta edizione di “Libriamoci”, iniziativa nazionale del Centro per il libro e la lettura. La biblioteca Baldini – che partecipa per il quarto anno consecutivo – grazie all’impegno delle lettrici volontarie del gruppo Reciproci Racconti proporrà nelle classi quarte e quinte una serie di letture ad alta voce sul tema della guerra.
Ancora la Baldini è protagonista sabato 27 ottobre alle ore 17, con la presentazione del volume “Da Caporetto a Vittorio Veneto” di Gioacchino Volpe nella riedizione pubblicata proprio quest’anno da Rubbettino. All’incontro, promosso dal Comitato scientifico per il Fondo Gioacchino Volpe conservato presso la biblioteca, interverranno i professori Andrea Ungari (curatore della pubblicazione) ed Eugenio Di Rienzo (autore del saggio introduttivo al volume).
Lunedì 29 ottobre la scena si sposta al Supercinema, dove, a partire dalle ore 21, in sala Wenders sarà proiettato il film “Torneranno i prati”, con cui nel 2014 il compianto regista Ermanno Olmi ha raccontato la tragedia della Prima Guerra Mondiale nella ricorrenza dei cento anni dall’inizio delle ostilità. Oltre alla serata pubblica, è in corso di definizione per i giorni successivi una proiezione mattutina per gli studenti dell’Itse Molari alla presenza di Maurizio Zaccaro, che Olmi volle come aiuto regista per “Torneranno i prati”. Il film – candidato a otto David di Donatello – narra una storia realmente accaduta sul fronte Nord-Est, una notte in trincea dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli altipiani.
Dopo il cinema e la lettura, spazio alla musica con “Tapum tapum… canti della Grande Guerra”, concerto del Coro Magnificat di Santarcangelo e del Coro Malatesta da Verucchio realizzato appositamente per l’occasione. Sabato 3 novembre al Lavatoio (ore 21) sarà possibile ascoltare un repertorio di musica popolare dell’epoca e canti dal fronte della Prima Guerra Mondiale.
Domenica 4 novembre a partire dalle ore 9,30 in centro città si svolgeranno le tradizionali commemorazioni istituzionali per il IV Novembre a cento anni esatti dalla conclusione della Prima Guerra Mondiale. In apertura la messa per i Caduti di tutte le guerre alla Chiesa del Suffragio, poi il corteo accompagnato dalla banda musicale di Santarcangelo “Serino Giorgetti” e gli interventi istituzionali al Monumento dei Caduti in piazza Ganganelli. Nell’occasione, inoltre, sarà possibile visitare la mostra in biblioteca.
“Santarcangelo per il centenario della Grande Guerra” è un’iniziativa promossa da amministrazione comunale, fondazione Focus (biblioteca “Baldini” e Istituto dei musei comunali), associazioni combattentistiche e Pro Loco in collaborazione con ANPI, Blu Nautilus e Dogville.
Rimini, il questore vieta le ronde (Corriere della Sera)
Piango le ronde a Miramare di Rimini (Il Foglio)
Benevento, latitante da 6 anni: arrestato a Rimini (Repubblica)
La Jeep di Marchionne e multe ai lidi non illuminati: operazione spiagge sicure (Corriere della sera)
Inizia una nuova campagna elettorale, ma locale
Da oggi inizia ufficialmente la campagna elettorale per le prossime amministrative di Rimini. Non certo perché l’invito a dimettersi rivolto da qualcuno a Gnassi, ‘per coerenza’ con il risultato nazionale, possa avere un qualche effetto, ma perché la situazione evidenziata da queste elezioni – per noi che siamo al confine tra l’Italia blu del centrodestra e quella gialla dei 5Stelle – richiede una risposta politica chiara dai diversi partiti e, a seconda di ciò che essi sceglieranno di fare, ne verrà condizionato il modo stesso di proporsi alle prossime elezioni.
Gnassi è certamente “l’espressione locale del renzismo”, al cui fondatore assomiglia anche per alcuni aspetti caratteriali, ma al di là di questi, come a livello nazionale, il problema principale dei suoi due mandati è stato il venir meno da parte del Pd della capacità di rappresentanza dei cittadini reali. Non è una osservazione che nasce oggi, ma da oggi è – diciamo così – ufficiale che il personalismo dell’agire politico (pur con la migliore capacità decisionale che ad esso si collega) abbia comportato l’abbandono poco a poco del partito come strumento del fare politica, lasciando alla amministrazione della cosa pubblica tutta la responsabilità di ‘leggere’ i problemi e le necessità dei cittadini; una presunzione secondo la quale i corpi intermedi e gli stessi partiti non sono in fondo necessari per governare ed è invece sufficiente l’intelligenza della gestione e della vision. Che poi venga prima il protagonismo del primo cittadino o l’incapacità del partito di mettere in campo risorse umane autorevoli, lasciamo volentieri che siano gli stessi protagonisti della discussione a stabilirlo. Purtroppo per il Pd e per i cittadini, risposte facili e ‘quadrature del cerchio’ a disposizione non ce ne sono. Anche perché l’ultima grande operazione di collegamento del partito al territorio risale proprio al grande avversario di Gnassi, all’allora vicesindaco Melucci; una operazione fondata principalmente sull’espansione urbanistica e che, se non fosse stato proprio per Gnassi, sarebbe probabilmente costata al Partitone (ormai ex tale) la perdita del Comune.
Per quanto riguarda il centrodestra, il risultato delle politiche non può far nascere illusioni particolari. Infatti, se pure fin dai tempi di Berlusconi ‘giovane’ e vincente, i seggi di Rimini abbiano ricalcato i successi del centrodestra nazionale, la conquista di Palazzo Garampi è invece sempre fallita più o meno miseramente. E poi perché l’Opa lanciata dalla Lega porterà, da qui a tre anni quando si voterà (un tempo enorme con i ritmi della politica di oggi), a una strutturazione interna probabilmente molto diversa della coalizione. In ogni caso, il problema politico principale è lo stesso del Pd. Infatti, pur senza la garanzia di un successo futuro, il centrodestra deve ricominciare a tessere una trama di relazioni con i diversi mondi cittadini che la Lega da sola, fino a ieri impegnata solo a capitalizzare il voto di protesta, non ha mai neanche pensato di avviare. E come anche i grillini hanno voluto sottolineare simbolicamente presentando i ministri al Colle, è giunto il momento per il centrodestra di dimostrare (con le idee, gli atteggiamenti, le relazioni) di avere una propositività originale e di saper ascoltare i cittadini e le categorie (non solo i loro presidenti). Insomma, se ne possiede la capacità e le risorse, è ora per il centrodestra di smettere di inseguire Gnassi sui suoi temi e iniziare a costruire e a comunicare una propria agenda per il governo locale.
A prima vista non sembra che questo discorso possa riguardare i grillini, ma tra raccogliere un voto di protesta e rappresentare (cioè essere capaci di ripresentarle nelle opportune sedi) le domande e le urgenze che nascono nella società esiste una grande differenza. Soprattutto se si ha in mente di utilizzare un modello fortemente statalista (con l’ente pubblico operatore esclusivo) per il quale, al di là delle questioni ideologiche, a livello locale proprio non ci sono le risorse
Per fortuna, pur in modo non sempre coerente e determinato, i cittadini e la società civile non aspettano solo la politica per vivere ed esistere; e tanti, oltre a protestare, già operano in modo concreto per risolvere i bisogni e per favorire un futuro di questa città. Anche per questo, di qui alle prossime elezioni, sarebbe forse opportuno che i signori politici (vincenti o perdenti a livello nazionale) non si pensassero solo e sempre come i ‘salvatori’, ma provassero a riconoscere tra i loro concittadini non solo i problemi, ma anche gli inizi e i tentativi di soluzione che già esistono.
(rg)
Elezioni 2018, quale voto utile
Quando i partiti ancora esprimevano una rappresentanza popolare, votare era facile. Ci si doveva “turare il naso” per le contraddizioni, le incapacità e gli scandali, ma l’appartenenza anche ideologica alla fine costituiva una scelta obbligata.
Oggi, passati dal proporzionale al maggioritario e di nuovo al proporzionale, ma senza quella identità valoriale che un tempo offriva e riceveva fedeltà, i partiti cercano di conquistare volta a volta l’opinione dei singoli cittadini offrendo loro pacchetti di provvedimenti che ne blandiscano gli umori, le aspettative e le preoccupazioni.
Infatti, franate le sponde che ne incanalavano ogni giudizio verso un voto prestabilito, è diventato naturale, per tutti i cittadini chiamati alle elezioni, fare ricorso prima di tutto alla propria personale esperienza della convivenza civile.
Ed è guardando ad essa che ognuno riconosce quale sentimento prevalga dentro di sé di fronte al Paese e ai suoi problemi: se di fiducia o di scetticismo, di apertura o di chiusura, di timore o invece di speranza, di partecipazione o di indifferenza, eccetera; sentimenti nei quali sono prefigurabili anche le scelte che ci toccano oggi in materia di immigrazione, Europa, stabilità, sicurezza; e così i diversi campi politici (se non i singoli partiti) cui esse corrispondono.
Da una parte, questo comporta il guardare a questa personale ‘esperienza del vivere insieme’ con la necessaria lealtà, riconoscendo quanto di positivo o di negativo sperimentiamo nei nostri ambiti di vita e, allo stesso tempo, quali siano i valori che noi per primi affermiamo praticamente nel nostro agire quotidiano e quale sia il nostro atteggiamento verso la comunità civile cui apparteniamo: cosa pensiamo di poter pretendere e cosa pensiamo di dover fare per essa (magari senza addossare alla politica tutte le colpe di quello che non va e senza far coincidere il ‘bene del mondo’ con il nostro piccolo interesse particolare o ‘di bottega’).
Dall’altra, occorre ammettere che ognuno di noi è responsabile (almeno in parte) di quella stessa ‘esperienza del vivere insieme’ che fanno le persone che abbiamo vicino e così (sempre in parte) degli atteggiamenti che esse assumeranno di conseguenza.
Insomma, che il mondo in cui viviamo, ben prima che dai partiti che lo governano, dipenda anche da come ognuno di noi tratta le proprie aspettative e quelle degli altri, da cosa affermi e da cosa ricerchi, da quali risorse personali metta a disposizione del ‘bene’ di tutti, è una ammissione di responsabilità che non possiamo smettere di ridirci.
Tra l’altro, rimettere all’origine della scelta di voto la nostra ‘esperienza’ e la nostra responsabilità verso gli altri, apre la possibilità di un voto consapevole e anche utile non solo agli esperti e a chi mastica di politica, ma a tutti: ad esempio a un ragazzo di diciotto anni che non abbia mai avuto prima la necessità di pensare al futuro in termini di comunità e non solo individuali; così come costituisce l’unica possibilità di difesa dal pensiero dominante veicolato dai grandi media (una volta dai media ‘di massa’, oggi, ancora più efficacemente, da quelli social).
Non solo. È tanta l’importanza che ognuno possa ritrovare in sé questa responsabilità verso i propri desideri e le proprie capacità, così come verso il bene di tutta la società e di quelli che ha a fianco, che neppure una scelta sbagliata alle elezioni può inficiarla. Alla lunga infatti, quando cioè sarà più facile dire “quel voto era giusto, quel voto era sbagliato”, se tanti avranno deciso di non restare “al balcone”, ma di mettersi alla prova in questa responsabilità, questo sarà comunque un punto positivo dal quale si potrà sempre ripartire.
(rg)
Elezioni 2018, riprendiamoci il sangue che ci hanno tolto
A proposito dell’articolo del 23 gennaio, Il corpo non ci porterà al seggio, qualche amico mi ha tacciato di irresponsabilità. Io credo invece che dire quanto sta accadendo nel nostro Paese sia molto utile all’esercizio critico. Intanto suggerisce domande e mette in ricerca, a differenza di chi ripete risposte generiche sempre buone per tutte le situazioni. Il non voto era qualunquista nel dopoguerra e indifferenza negli anni ’80. Oggi, come ho scritto, è rivolta, e gli va riconosciuta la dignità di una espressione di resistenza all’oltraggio. Tuttavia io voterò. Forse. Non so ancora chi. Ma lasciatemi ancora capire.
L’astensionismo delle imminenti elezioni dimostra che il sistema democratico è gravemente malato. E non è più in grado di rappresentare l’azione politica. Chi governerà con il 50% del 50% dei votanti della nazione non amministra più una democrazia ma una “anoressia”. Un cittadino che ha perso l’appetito per la responsabilità sociale, tutto ripiegato sui social a mostrare l’ultimo acquisto o consumazione.
L’anoressia politica trova manforte nel socialismo reale - non quello morale di cui ci sarebbe tanto bisogno – : l’avanzamento sistematico della macchina burocratica amministrativa, fatta di regole e di procedure tecniche, che occupa tutti gli spazi delle relazioni sociali delegittimandole. Nel socialismo reale l’uomo diventa “un pubblico ufficiale” e il suo esercizio una “pubblica funzione”. E non si troverà mai nessuno che sia responsabile di qualcosa. Soprattutto nessuno avrà possibilità di capire cosa stia succedendo.
Tanto per fare un esempio, nessuno sa che introducendo nella scuola l’obbligo dell’alternanza, Renzi ha mandato gli insegnanti a spasso per i corridoi per ben 140 milioni di euro all’anno, sottraendoli alle famiglie pur di raccontare che l’ha cambiata! Avete sentito qualcuno lamentarsi? “Stai zitto” mi ha detto un collega, “non ti lamenterai mica che ci fanno lavorare di meno? Per quello che ci pagano!” A uno che ragiona così gli toglierei anche la congrua! Tuttavia la cosa più buona degli ultimi trent’anni l’aveva fatta Renzi: abolire il Senato. Avete visto che alzata di scudi?
L’anoressia sociale nasce quando il delegato ha cessato di ricevere dall’elettore la facoltà di rappresentarne l’idea e l’esperienza di bene comune vive nel popolo. Dopo il crollo delle ideologie si pensa, a torto, che la dimensione politica sia pertinenza dei tecnici, i soli in grado di escogitare le migliori teorie per ordinare l’universo mondo. Da loro ci si aspetta tutto. Come gli schiavi dal Faraone. Il popolo non ha nulla da dire, si dice, perché il mondo è diventato così complesso che come minimo per capirlo occorrono una laurea, un master e un’ intera vita dedicata alla “scranna”. Economia, sanità, scuola, rifiuti, pensioni, lavoro, relazioni cessano di essere variabili di senso discusse nella società e diventano algoritmi di cervelli disconnessi dalla realtà e al soldo della finanza. La società viene spinta nel corner, impigrita e surrogata da progetti e commissioni. Si consuma così il peggior genocidio dei corpi intermedi: famiglia, quartiere, comunità educante e assistente, organismi di cooperazione, circoli, ... proprio quel mondo al quale spetterebbe per natura il protagonismo dell’azione politica. Per di più hanno fatto bere al popolo l’olio di ricino di leggi che ne hanno illanguidito il sangue, riducendolo ad una insignificanza demografica. E ora manca chi lavora per mantenere le pensioni! Tranne per quelli che godono il meritato vitalizio.
Lo specialista e il politico di professione hanno invaso la società sottraendole lo spazio che le spetta. Come direbbe Hanna Arendt, quello dell’opera in cui l’individuo si realizza, e dell’azione, dove le relazioni umane intrecciano identità collettive e solidali. Il vampirismo partitico ha succhiato il sangue del corpo sociale che si ritira nell’anoressia privata. Come uscirne?
Che bello e vero lo slogan che tutti oggi abbiamo dimenticato: “Più società meno stato”! Mi domando come mai tutti, dico tutti, abbiano abbassato la guardia su questo che dovrebbe essere il programma del nuovo millennio, non appena il canto del cigno di quello concluso. Da questa dimenticanza - colpevole? - nasce la confusione anche della parte più viva del mondo imprenditoriale e culturale dell’Italia alle prossime elezioni. Anche cattolico. Tiriamolo fuori di nuovo, ce n’è bisogno perdio!
Alfiero Mariotti
Elezioni 2018, il corpo non ci porterà al seggio
Astensionismo fisiologico? No grazie, astensionismo della rivolta dei corpi.
Gli studi sul ‘900 hanno chiarito che la democrazia può risultare la forma peggiore di biopotere totalitario. Basta mortificare la persona e i corpi intermedi con le procedure burocratiche. Come sta avvenendo in Europa e in Italia. Il tutto giustificato dalla forza delle maggioranze parlamentari. Ne sono un esempio le leggi sull’eutanasia, sul biotestamento, sulla riproduzione assistita. Non entro nel merito etico, ma dico solamente che la regola-mentazione di ogni aspetto della vita sociale è il sogno di una tecno-scienza, che pensa l’umanità nei termini cartesiani di una macchina senza la rete della solidarietà e responsabilità personale.
Questo sistema è il più efficiente produttore di status quo: il sistema dei mezzi della produzione e del consumo di massa. Fatti fuori i soggetti intermedi della società civile, nei quali vive la responsabilità personale e cooperativa, il risultato è la morte dell’esercizio critico. L’unico che interroga sui fini. Ma quando il pensiero cessa la propria attività, un ultimo sussulto di resistenza viene dai corpi, come narra tanta letteratura.
Alle prossime elezioni si potranno trovare tante sensate ragioni di voto. Per tutti i partiti e in tutte le salse. Ma ormai sappiamo che saranno tutte rigorosamente smentite e allora il nostro corpo resisterà: non ci porterà al seggio. L’ho già sperimentato personalmente in questi giorni: sentendo le varie dichiarazioni dei politici alla tv, una nausea saliva dal profondo e il dito partiva alla ricerca di un altro canale. Non tutto il corpo si ribella allo stesso istante. Si inizia dalle parti periferiche, come i tic nervosi dimostrano. E non tutti i corpi si ribellano nello stesso momento. Ma questa volta saranno tanti!
Nel 2013 l’astensione è stata del 27,75%. Percentuale alla quale si può aggiungere un 6% di schede bianche, nulle e contestate (che è come dire “uscenti”). La somma porta oltre il 33%. Si troverà un altro 17%? Non è fuor di luogo, dal momento che non si tratta di un astensionismo fisiologico delle democrazie, ma di un astensionismo della rivolta dei corpi. Si noti che in 23 anni, tra il 1983 e il 2006, la mortalità elettorale è salita del 10%, e lo stesso trend è stato bruciato in soli cinque anni tra le due ultime tornate elettorali (2008-2013). Nelle elezioni regionali del 2015 ci siamo fermati attorno al 52%, confermando una discesa di dieci punti dalle precedenti. Si dirà che non è ancora la maggioranza. Ma quel che conta veramente è il significato della tendenza. Che ce ne facciamo di un diritto al voto quinquennale, se serve solo ad un costume politico che incrementa l’astensione?
Nell’ultimo terzo di secolo, tutti i partiti hanno abusato dell’elettore e ora si raccomandano di non rinunciare al diritto di voto. Dopo che impunemente hanno tentato di schiacciargli in tutti i modi la dignità facendo votare alleanze che l’indomani litigavano su tutto, eleggere premier ritualmente surrogati, sognare promesse sistematicamente smentite, votare referendum rimangiati, volare su traguardi regolarmente spostati, partorire topolini per eleggere con sistema maggioritario forze proporzionalmente minoritarie, ingoiare rospi come presidenti della Repubblica, …
Quanto credete che possa durare? E’ vero che l’italiano è più accomodante degli altri popoli, preferendo sempre il malgoverno all’anarchia, e questo finora ci ha fatto onore e a qualcuno fa sempre sperare un giro di giostra. Ma c’è un limite a tutto! E il limite ultimo è costituito dal corpo in rivolta che non può più ricevere ordini. Un corpo che non si muove, giudicando inaccettabile un nuovo comando di chi ha fatto di tutto per calpestarne l’anima e infine ha la faccia tosta di appellarsi all’ultimo argomento della forza: “senza di noi il caos”. Perché, con voi?
Dovevate saperlo: la vita non sopporta pressioni illimitate, e prima o poi manda all’aria ogni sistema. Non dico che sia auspicabile. Forse. Se non fossimo italiani, la rivolta sarebbe una reazione più che naturale. E per fortuna lo siamo. O purtroppo. Ma attenti: forse anche gli italiani, dopo il massacro, sono in via di estinzione.
Alfiero Mariotti