L'Islam e la sfida alla persona
Martedì 12 settembre, a Rimini presso la Sala incontri San Giuseppe al Porto, il Centro internazionale Giovanni Paolo II, con sede a San Marino, ha promosso un incontro della serie “fede e ragione” sul tema L’Islam e la sfida all’Occidente. Relatore il gesuita egiziano Samir Khalil Samir, Islamologo e docente al Pontificio Istituto Orientale e all’Università Saint Joseph di Beirut. 300 partecipanti, un bel successo.
Il moderatore ha introdotto manifestando preoccupazione per la crescita spropositata della popolazione musulmana in Europa e nel mondo e ha chiesto all’ospite di spiegare il variegato universo islamico e offrire suggerimenti all’Occidente.
Padre Samir ha sviluppato tre punti: genealogia dell’Islam con le differenti letture della shari’a; radiografia del mondo islamico odierno; ragione e fede nell’esperienza personale dei musulmani .
Secondo il gesuita – lo dice ormai da anni - la violenza trova giustificazione nel Corano prevalentemente legalistico-politico dell’epoca di Medina (dopo l’ègira del 622), mentre la fase Meccana contiene un’alta spiritualità aperta alla pace. Tutto il problema del conflitto tra le due sensibilità sta nella interpretazione letterale alla quale molte scuole islamiche si attengono. In altri termini, l’Islam non ha maturato una esegesi coranica in grado di distinguere i giudizi espressi su contesti storico-sociali ormai tramontati dagli insegnamenti di spiritualità universale. In tal senso andava la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona sull’esercizio della ragione all’interno della religione. Fu proprio l'Università al-Azhar del Cairo, massima autorità della tradizione sunnita di stretta osservanza letterale, a bocciare l’invito dell’emerito.
Ma se lo spirito viene mortificato nelle scuole degli intellettuali, poi trova vita nell’impegno personale di tanti musulmani. L’esperienza ottuagenaria di Samir è piena di esempi. Dalla musulmana, cuoca in un convento di suore, che trova il modo più ragionevole di conciliare gli orari dei propri obblighi religiosi senza venir meno ai doveri del lavoro, al caso opposto del musulmano - portiere di condominio - che sospende il proprio servizio di ascensorista per pregare, costringendo così il piccolo Samir di ritorno dalla scuola a salire a piedi all’ottavo piano: ma il papà di Samir anziché prendersela con il musulmano per un mancato servizio, ragionevolmente lo indicava al figlio come un esempio di uomo pio da cui imparare a non anteporre il lavoro alla preghiera. Due begli esempi di reciproco uso della ragione.
Un’altra occasione importante di dialogo, ricorda il sacerdote egiziano, è stata la scuola voluta da un gruppo di musulmane che gli hanno chiesto un confronto approfondito tra Cristianesimo e Islam: ne è nata un’amicizia, e le donne - incredibile nel mondo islamico - hanno invitato a partecipare al corso anche i propri mariti.
Certamente Samir è sempre piuttosto misurato e non manca di sottolineare i pericoli. Soprattutto quelli provenienti da stati come l’Arabia Saudita dove il wahabismo è il maggior finanziatore del terrorismo internazionale. Inoltre crede che quando un immigrato non accettasse il miglior diritto universale prodotto in occidente per garantire il rispetto reciproco delle differenze dovrebbe sentirsi libero di tornare nel proprio paese; non dobbiamo costringerci a vivere sotto le stesse regole. Il passaggio è stato oggetto di un fragoroso applauso. Evidentemente gran parte della platea ha manifestato entusiasmo per la proposta.
Se è praticabile questa prospettiva per un migrante in occidente, resta lecito domandarsi se lo sia altrettanto per un nato e battezzato nei paesi a maggioranza musulmana. Spesso qui le donne non hanno la stessa dignità degli uomini, né i cristiani. Per questo all’Islam resta da fare un grande lavoro sulla laicità. Tuttavia il relatore non nutre grande ottimismo in tal senso: perché, ha ribadito più volte, l’Islam non è solo una religione spirituale ma anche un sistema politico, sociale e giuridico.
Ecco allora che le speranze sono appese al filo delle relazioni personali e non innanzitutto della politica.
Samir ricorda ulteriori profonde amicizie con musulmani invitati alle sue celebrazioni (ragionevolmente senza la partecipazione all’Eucarestia), alla fine delle quali chiede loro di innalzare a Dio le proprie preghiere. Su questo punto, la platea non ha espresso apprezzamenti. In effetti, gli interventi dal pubblico hanno dimostrato una certa indifferenza alla proposta della valorizzazione dei rapporti personali avanzata dall’invitato. Qualcuno, mi ha detto, lo attendeva più duro.
Forse – aggiungo io – è sempre rischioso accettare il gioco delle relazioni personali, richiede uno spirito di sacrificio a cui non si è mai preparati, una ragione che si pieghi ad accogliere la novità che può prodursi ad ogni istante, purché si lasci spazio alla libertà e alla grazia giocate tra gli uomini. Qualcosa che non si risolve nei consessi internazionali, nelle decisioni che i governi pur devono prendere.
Per questo motivo, con il senno di poi, si potrebbe dire che un titolo più conforme alla relazione svolta avrebbe potuto suonare pressappoco così: L’Islam e la sfida alla persona.
Sarà per un’altra volta.
Alfiero Mariotti
Carim: volano gli stracci, gli indici cadono
Copione rispettato giovedì sera per l’assemblea generale dei soci Carim. Sia nei toni, ancora molto accesi, con accuse e invettive rivolte dalla platea alla tribuna dei relatori (fino all’invito esplicito al presidente della banca ad andarsene ‘per sempre’); sia nei contenuti, con una sfiducia verso il management ormai senza appello e sempre più esasperata.
Un clima nel quale non stupisce neanche l’annuncio della presentazione di nuove citazioni in Procura. Azioni, al di là del loro sviluppo, dal sapore un po’ grottesco, destinate a perpetuare polemiche tutte riminesi quando “la Cassa” di Rimini, come tale, invece non esisterà più; magari una sorta di memento riguardo alle scelte politiche e lobbistiche, invece che professionali, che hanno segnato una lunga stagione cittadina (quasi il corrispettivo privato della vicenda Aeradria), oltre a un certo provincialismo per il quale gestire una banca, via, non sarà più difficile che gestire un bagno al mare (o un aeroporto).
L’assemblea è comunque riuscita a votare e approvare la proposta della Fondazione che modificava in parte l’ordine del giorno per il quale era stata convocata: “attribuire al consiglio di amministrazione la delega ad aumentare il capitale sociale, a pagamento o gratuitamente, in una o più volte, anche in via scindibile, per un importo massimo complessivo di ottanta milioni di euro, da esercitare entro il 31 dicembre 2017.”
In sostanza, si trattava di trovare per tempo un rimedio al sempre più precario stato patrimoniale della Banca o, come recita il comunicato stampa successivo all’assemblea, di poter “mantenere il rispetto dei minimi regolamentari dei coefficienti patrimoniali”.
Detta in modo più chiaro, i famosi indici trimestrali con cui le banche sono tenute sotto osservazione da Banca d’Italia si sono pericolosamente avvicinati alla soglia minima critica sotto la quale un istituto o immette nuovo capitale o deve immediatamente smettere di operare. In particolare, i coefficienti patrimoniali segnalati a Banca d’Italia al 30 giugno evidenziano una situazione non esattamente positiva: il CET1 Ratio si attesta al 6,53% contro il 7,80% richiesto da Bankitalia, il Total Capital Ratio all’8,13% contro l’11,30% e il Tier1 Ratio al 6,53% contro il 9,30%.
Ma ancora di più si tratterà di capire se siamo davanti a un trend negativo inarrestabile o meno; un interrogativo che renderà comunque la prossima rilevazione particolarmente delicata e forse decisiva.
In realtà, dal punto di vista pratico, tutto rientra nel destino ormai scritto della Carim. Non a caso, l’aumento di capitale autorizzato è riservato al solo Fondo Interbancario, secondo quanto già previsto nel percorso per la cessione di Carim a Cariparma. Diversamente dal piano fatto a tavolino, cominciano però a diventare dirimenti i tempi della sua attuazione (e qui si rientra anche nella polemica di questi giorni tra Quaestio e Cariparma); sia per quanto riguarda i tempi di reperimento del denaro aggiuntivo necessario allo smaltimento dei crediti deteriorati ricalcolati, sia, da oggi ufficialmente, per i tempi di resistenza di una banca ‘in mezzo al guado’.
Non è un caso che proprio questa sia l’accusa più insistente (anche l’altro giorno in assemblea) che i soci rivolgono al management della Banca; sul fatto cioè che si sarebbe potuto fare qualcosa di più in questi ultimi anni, non per evitare la vendita della Carim, ma almeno per ‘fare banca’, per avviare una nuova stagione di rapporto con il territorio (che avrebbe anche potuto condizionare i comportamenti dei nuovi proprietari) e non solamente aspettare l’inevitabile.
Infine, al di là delle loro conseguenze pratiche, queste deliberazioni evidenziano un forte valore simbolico cominciando a rendere più percepibile a tutti il destino della Cassa. La Fondazione infatti, votando in assemblea la proposta di ricapitalizzazione, ha accettato di fatto e in modo definitivo di perdere il controllo della Carim. Alla prossima riunione, già preannunciata per la fine di settembre, il padrone della Cassa di Risparmio di Rimini potrà essere già il Fondo Interbancario.
Quaestio risponde a Cariparma sul salvataggio della Carim
Nell’aprile dello scorso anno Quaestio Capital Management Sgr lanciava il primo Fondo di investimento alternativo denominato "Atlante" per sostenere gli aumenti di capitale delle banche e aiutare la gestione delle sofferenze. Nell’agosto successivo, lanciava anche il fondo Atlante II, che, a differenza del primo, può investire solamente in credititi deteriorati e comunque in strumenti collegati ad operazioni in NPL.
In questo modo Quaestio è stata protagonista, prima di ‘girarsi’ verso la Romagna e la Toscana, dell’oneroso salvataggio delle Popolari di Vicenza, nel quale ha dovuto investire gran parte delle proprie raccolte.
Per questo motivo, come abbiamo raccontato qui, a fronte dei nuovi calcoli sui crediti deteriorati in pancia alla Carim, il fondo si vedrà costretto a raccogliere nuove risorse per permettere il salvataggio della banca riminese (oltre a quella di Cesena e San Miniato). Lo stesso dovrà fare anche il Fondo Interbancario.
Davanti a questa situazione, Cariparma, con un comunicato dal tono un po’ indispettito, fissava (il 2 agosto, vedi qui) in modo unilaterale una nuova scadenza per la conclusione dell’operazione.
La risposta degli amministratori di Quaestio non si è fatta attendere e già il 4 agosto le tre banche hanno ricevuto una lunga lettera di risposta alle affermazioni di Cariparma e all’atteggiamento da essa assunto.
Con la lettera, Quaestio sostanzialmente si smarca dalle pretese di Cariparma e, indicando i passaggi necessari e precedenti alla propria attività, ne sposta il termine in modo significativo. “Con riguardo alla tempistica per il reperimento del finanziamento senior di 416 milioni di euro (…) risulta peraltro del tutto irrealistico ottenere un impegno in relazione al Finanziamento Senior entro il 10 di settembre pv, ed è per sé già molto sfidante aspirare ad un commitment da parte delle banche finanziatrici entro la fine dell’anno 2017.”
“Analogamente – recita un altro passaggio della lettera – ad oggi non sono ancora disponibili neppure le risorse finanziarie necessarie per finanziare il prospettato intervento di Atlante II nei titoli mezzanine dell’operazione” e per questi, ad andare bene e se tutti i soggetti coinvolti forniranno i documenti e i controlli necessari, non se ne parlerà prima del 30 settembre.
Nella sostanza si parla di circa 600 milioni in tutto che Quaestio deve raccogliere. Una cifra comunque importante a questo punto della vita del Fondo e anche per questo è davvero difficile prevedere l’insorgere o meno di problemi reali nella loro raccolta.
Al momento attuale sembra più un’alzata di orgoglio per contenere i modi un po’ spicci di Cariparma. Che peraltro, alzando la voce, dimostra che si è ormai ingolosita della partita.
Il 3 agosto l’annuncio di Cariparma sulla acquisizione
Su alcuni giornali nazionali (ilSole24ore e il Messaggero), ieri, si è tornati a parlare di Carim. La notizia è che i vari protagonisti – il Fondo Interbancario, Credit Agricole, il Fondo Atlante – stanno cercando di sincronizzare le proprie decisioni finali al fine di permettere al gruppo francese l’annuncio, già il 3 Agosto, dell’acquisizione delle Casse di Cesena, Rimini e San Miniato.
Ma la volontà di fissare dei tempi certi e ravvicinati è anche un modo elegante per forzare la mano, ognuno all’altro, dei diversi soggetti impegnati nell’operazione. Infatti, confermando i timori di cui abbiamo scritto a suo tempo, la valutazione dei crediti inesigibili è salita di circa duecento milioni netti, obbligando così una rimodulazione degli impegni di tutti.
Il Fondo Interbancario dovrà raccoglierne la metà e per questo dovrà convincere (come è noto si tratta di un fondo volontario cui contribuiscono i diversi istituti bancari) i board delle diverse banche ad aprire nuovamente il portafoglio. Così anche per il Fondo Atlante, che è un fondo privato, e dovrà coprire l’altra metà della cifra di differenza; a sentire ilSole24ore, coinvolgendo altri attori o con operazioni finanziarie che possano sbloccare risorse. Come invece sottolinea il Messaggero, “anche Cariparma farà uno sforzo”. Sostanzialmente, invece di trattenere a garanzia di eventuali ‘sorprese’ future parte dei soldi che dovrà pagare per l’acquisizione della Cassa di Cesena (140 milioni), verserà interamente la cifra dovuta.
Se tutto procederà dunque come queste ultime mosse suggeriscono, avremo l’annuncio ufficiale dell’acquisizione delle tre banche, tra cui anche la Carim, da parte di Credit Agricole Cariparma già il prossimo 3 agosto.
Ma la vicinanza dell’annuncio e la certezza ormai chiara dei numeri dell’operazione costringono anche il nostro territorio a cambiare radicalmente l’approccio a tutta la vicenda; soprattutto superando quei desiderata che sono, sì, comprensibili in un piccolo risparmiatore, ma che in ‘bocche’ più esperte mostrano ormai una certa ambiguità. In ogni caso, pur rispettando l’angoscia di tanti che vedranno il loro investimento perdere di valore, è necessario partire dal dato positivo del fallimento evitato e come questo possa salvaguardare molti posti di lavoro e probabilmente anche tante aziende che ancora hanno un legame con la Cassa.
A questo proposito, come ha appena scritto l’associazione dei bancari, sarà importante capire come Cariparma vorrà impostare la trattativa su esuberi e investimenti. E proprio nella chiusa della dichiarazione del segretario generale della Fabi si può ritrovare il tema che sarà al centro della discussione locale dal 3 agosto in poi. “Cariparma Credit Agricole, guidata dal Ceo Giampiero Maioli, nelle sue relazioni sindacali e industriali ha sempre dimostrato la massima attenzione verso i lavoratori e anche in questo caso siamo certi che troveremo una banca disposta a ragionare solo in termini di esodi e prepensionamenti su base volontaria.”
Vogliamo dire che se fino a questo momento il Ceo di Cariparma ha mostrato la sua faccia ‘cattiva’, dal 3 agosto in poi dovrà cominciare a dimostrare che il ‘suo’ nuovo territorio gli interessa veramente e come. A partire dai lavoratori e dal sostegno alle aziende fino alle liberalità e agli investimenti sulla valorizzazione sociale e culturale del territorio. In gioco, l’affezione dei riminesi alla ‘nuova’ banca.
Parigi val bene una messa
Tutti siamo spaventati dalla bufera di morte che entra nelle scuole e metropolitane, nei ristoranti e aeroporti, nelle discoteche e boulevard; dove accompagniamo i nostri figli nella speranza che realizzino i loro sogni, quando andiamo a cercare uno sguardo amico per farci consolare dopo un periodo di duro lavoro e insoddisfazione, mentre passeggiamo con la donna che amiamo promettendole la felicità. Ci inquieta che il fronte di guerra sia arrivato fin lì, e attraverso un’anima vuota – che probabilmente non ha saputo cogliere proposte di vita - deflagri nel suo corpo dove qualcuno ha piazzato l’esplosivo.
Si possono dire i connotati di questa nuova violenza? E di chi l’alimenta? Non si tratta innanzitutto di sigle: ISIS piuttosto che Hamas, Siria anziché Iraq. I connotati stanno anche nel mio sguardo, nelle parole con cui tratto le cose e le persone, tutte le volte che do la precedenza alla mia avidità di potere. Quando riduco l’altro al mio tornaconto e lo spoglio del pudore che lo difende dall’essere ridotto a merce. In questo tutta la storia occidentale è maestra per il resto del mondo: tecnologia e mercato, nate al servizio dell’uomo, stanno per surrogarlo. E i popoli mediorientali non muovono nessuna guerra di religione a questa secolarizzazione. Non è affatto vero, come qualcuno sostiene, che Isis o al-Qaida, Hamas o i Lupi grigi, siano organizzazioni reazionarie anti-moderne che dichiarano guerra al progresso e al cristianesimo occidentale che ne sarebbe l’origine. Tutto questo risulta essere una impudente copertura. Dalla nascita dell’epoca moderna le guerre di religione sono sempre state utilizzate per nascondere i veri motivi legati alla ragion di stato: la potenza imperialista. Ancora Parigi val bene una messa!
Nessun duello di civiltà, benché anche tra di noi qualcuno lo paventi. Piuttosto, come sempre, uno scontro per il potere, ingigantito dal modello della società industriale e dall’avidità dei mercati che oggi più che mai scorre attraverso gli oleodotti. Basta buttare uno sguardo sulla storia recente del Medioriente per avere un quadro realistico delle forze in campo, e capire perché alcuni paesi non condannino “senza ma” e “senza se” il terrorismo che hanno in casa. E intendo i governi filo-islamici anche più lontani dalla shari’a che faticano a dissociarsi dal terrorismo, perché lo ritengono utile alla strategia per il predominio in Medioriente. Ognuno si augura l’estinzione degli avversari per rubargli il mazzo. Le vie diplomatiche di facciata traggono dai conflitti e dal terrorismo motivazioni per rivendicare il primato in quelle zone sfruttate per troppo tempo dalle potenze occidentali.
Con la rivoluzione industriale, l’Impero ottomano inizia la propria agonia appena dopo un secolo dalla sua massima espansione. Tra il 1830 e il 1912 perde Grecia, Creta, Cipro, Bessarabia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Bulgaria, Albania; contemporaneamente tutta la costa africana viene colonizzata da Francesi e Inglesi che creano il Canale di Suez per arricchirsi con gli scambi commerciali tornati nel Mediterraneo, in seguito anche gli Italiani occuperanno la Libia. Con il Trattato di Sèvres del 1920 il Califfato viene definitivamente seppellito a conclusione della Grande guerra. Siria e Libano, Palestina e Giordania diventano Protettorati francesi e inglesi. L’etnia araba spera di prendere il posto dei Turchi cacciati. Nel 1923 nasce la Turchia dei Giovani turchi rivolti verso le democrazie occidentali. Inutile ricordare che questa fase lascia un’onta pesante sull’orgoglio di questi popoli e nelle generazioni future.
Nel secondo dopoguerra, con la decolonizzazione vengono disegnati i confini degli attuali stati dell’area sulla testa dei residenti. Nei Protettorati, la Risoluzione ONU 181 del 1947, sensibile alla tragedia della Shoah, fonda lo Stato d’Israele nel bel mezzo di uno Stato palestinese che non si costituirà mai. La ragione della costituzione dello Stato d’Israele sta anche nella necessità di monitorare il Medioriente con il quale le relazioni resteranno sempre difficili, visto che non conosce la rivoluzione liberale e democratica. Tra il 1948 e il 1973 diversi paesi dell’area, a capo l’Egitto, dichiarano la guerra ad Israele e agli interessi Occidentali in Medioriente. Nascono l’OPEC (che produce il 50% del fabbisogno petrolifero mondiale possedendone il 60% delle risorse) e l’OLP da cui partono i primi atti terroristici di Hamas e della prima e seconda Intifada.
La mezzaluna fertile, madre delle prime civiltà, vuole partecipare agli utili di un’economia occidentale che succhia petrolio dai suoi pozzi per mezzo delle 7 compagnie di idrocarburi anglo-americane. Un passo importante in questo senso è compiuto dalla nazionalizzazione del petrolio voluta da Gheddafi che ha messo in difficoltà le “7 sorelle”. Cresce così la competizione fra le varie fazioni etniche (arabi, turchi, persiani, …) e religiose (sciiti, sunniti, wahabiti, …) che arriva alla rivoluzione iraniana del 1979. In seguito al crollo della cortina di ferro, si risveglia il sogno dei paesi dell’OPEC di mettere al proprio servizio anche i 7 fratelli dell’impero economico mondiale, riuniti i giorni scorsi a Taormina. E’ la volta delle guerre del golfo, dell’11 settembre 2001, di al-Qaida, delle primavere arabe e dell’Isis.
Anche se nel frattempo la percentuale della produzione del greggio arabo è diminuita, resta assai prestigiosa. Così nel Medioriente si combatte la battaglia per la leadership: sarà dell’Iran o della Siria, persiani sciiti o arabi? sarà dell’Iraq o della Turchia, arabi sunniti o turchi? O dopo la loro possibile autodistruzione vinceranno il Qatar e l’Arabia Saudita wahabiti amici dei petroldollari? E la Russia che ruolo gioca?
All’interno di ogni schieramento c’è chi seguirebbe la via del compromesso e chi invece è disposto a giocare tutto in nome di una macchia da riscattare. Strategie differenti per uno stesso fine: potere e controllo del mercato dell’oro nero, ancora energia primaria dell’industria dei consumi, che fa comodo a tutti. Pure a noi, che smaniamo per computer sempre più potenti nella corsa per sottomettere l’altro. E’ sempre la stessa questione del potere, tra gli stati come nel cuore dell’uomo. Anche i popoli preindustriali oggi dicono di voler partecipare al gioco.
Intanto in questi quattro anni ONU e NATO sono state alla finestra, anche se ogni tanto in casa cade qualche bomba, nella speranza di vedere gli eserciti sul campo distruggersi. E’ stata la strategia dell’era Obama, quando neppure la difesa delle minoranze cristiane ha costituito un principio di intervento, al pari della tragedia di tanti musulmani ed ebrei che da 70 anni vivono su una polveriera. La difesa della vita di un povero cristo passa in secondo piano quando sono in gioco interessi economici. Lo scopriamo solo ora che saltano le nostre comodità? Beh c’è chi non ne ha mai avute.
Allora non perdiamoci nelle disquisizioni tra islamici moderati e fondamentalisti o tra occidente cristiano e occidente relativista. Non c’è guerra di religione né scontro di civiltà, ancora, e forse se saremo intelligenti riusciremo ad evitarlo. L’unica tensione che alimenta il caos è la pervicace volontà di potere, che accomuna società occidentali e orientali, già secolarizzate o ancora fondamentaliste. Farhad Bitani - ufficiale afghano e fondamentalista prima di iniziare un percorso di autocritica - intervenuto all’Istituto tecnico economico Valturio di Rimini nel 2016, presentando il suo libro L’ultimo lenzuolo bianco, ha raccontato che i fondamentalisti sono tutti affaristi che usano il nome di Dio per il loro interesse: con la divisa uccidono barbaramente in nome della shari’a mentre in borghese praticano i peggio peccati vietati dal Corano.
Come insegna Bauman - uno dei più attenti osservatori della crisi che stiamo attraversando - in questa situazione di violenza dilagante, che forse accompagnerà tutto il futuro che ci resta da vivere, una rivolta da subito è possibile: lasciare che il volto dell’altro desti la mia responsabilità.
Alfiero Mariotti
Il vuoto, i nostri ragazzi, il terrorismo
Come fa un ragazzo di 23 anni a farsi esplodere in mezzo ad una folla di bambine se il vuoto non l’ha già preso per le nostre strade occidentali di Manchester o Parigi, sui nostri banchi di scuola dove spieghiamo l’Ulisse di Joyce e l’economia di Smith, nelle discoteche in cui balliamo la stessa musica commerciale, nelle reti informatiche della post-verità o nelle stesse multisale di proiezione di film spazzatura che ogni giorno ci propinano, a partire dalla Walt Disney Studios Motion Pictures?
Chissà perché un mio alunno durante tre giorni di gita a Palermo è rimasto impressionato quasi solamente da un inciso sfuggito ad una guida turistica che spiegava il barocco della bellissima chiesa di Santa Caterina d’Alessandria: “l’arte del ‘600 testimonia l’horror vacui che caratterizza l’uomo”. Giacomo frequenta un istituto economico e non sa nulla di latino, ma si è precipitato a chiedere spiegazione e da allora non perde occasione di ripetere il concetto. Credo che la frase abbia facilitato in lui una connessione tra l’horror vacui e le tante paure, incertezze, insoddisfazioni, delusioni, tradimenti, cinismi in cui affoga la sua generazione sfortunata, sfortunatissima, perché stuprata dalla logica a cui il mondo adulto si sottomette: pubblica efficienza produttiva ripagata da emozionanti consumi privati a gogò.
Ma avete letto i testi delle canzoni di Ariana Grande? Come si fa a inalare ad una piccola di 13 anni quel veleno? Gli innocenti scampati alle bombe non rischiano una mutilazione spirituale altrettanto ingiustificata? Pasolini la chiamava l’orrido. Tutto è strumento, tutto è consumo: corpi e anime.
Un ragazzo di 23 anni si fa esplodere perché gli promettono il paradiso, dicono. Ma come fa a credere che ammazzando angeli si possa andare in paradiso? Bisogna che la sua vita sia già un inferno! Allo stesso modo viene da chiedersi: come può succedere che un povero genitore possa sopportare sacrifici metropolitani per accendere le cuffie da coniglietta della propria piccolina che balla sulle note di Side To Side?
(...) cavalco un c*zzo, bicicletta
Vengo dentro di te, ti do questo tipo di esplosione
Se vuoi Minaj, ho un triciclo*
Tutte queste stron**tte, tentano di imitarmi
Ho un corpo che fuma** così mi chiamano 'giovane caminetto Nicki'
o di Everyday?
(...) mi sta dando questa buona m***a ....
ogni volta, ovunque, piccolo ragazzo, io posso comportarmi male
respirami dentro, respirami fuori, fammi sentire
che sto correndo nelle tue vene
Purtroppo basta che la sua vita sia diventata una solitudine. La solitudine che tutti sperimentiamo: quella che ci priva della primogenitura con un piatto di lenticchie. E’ forse meno straziante mettere al mondo un uomo e vederlo riempire di vuoto per il resto dei suoi giorni di quanto sia vederlo bruciare vivo?
Solo chi non dà più il giusto peso alla carne e allo spirito può ritenere blasfemo il paragone e pensare che su questo sentiero si finisca per giustificare il carnefice. Invece, proprio questo è lo spettro che si aggira in occidente.
E’ ormai palese che l’uomo moderno atlantico è in via di estinzione: presa la strada dell’autogestione sessantottina è precipitato nel tritacarne della merce e dell’emozione, dissoluzioni del lavoro e dell’amore.
L’occidente non può più essere salvato, deve nascere qualcosa di nuovo, in ciò sta la lungimiranza di chi sostiene che siamo ad un cambiamento d’epoca. L’Europa inesiste e nessuno sarà in grado di farla rinascere. Terra del tramonto era, terra del tramonto è: qui tutte le narrazioni si concludono. Chi ragiona ancora in termini di Europa vs resto del mondo è un nostalgico o un utopista. La nuova casa deve essere rifondata ed ha le dimensioni del pianeta con le porte aperte. Come sempre, si potranno avviare i lavori solo su una solida pietra, non sul vuoto del Truman show.
Alfiero Mariotti
Banca Carim e le incognite della cessione
L’ultimo aggiornamento sulle trattative per Banca Carim è del blog The Insider di Carlo Festa, il quale, da una parte, conferma che la trattativa con Cariparma riguarda ormai definitivamente tre banche (includendo quindi San Miniato) e non più le sole Casse di Rimini e Cesena e, dall’altra, aggiunge alcune cifre sulla cartolarizzazione dei crediti inesigibili collegata alla trattativa stessa. In primo piano il costo complessivo dell’operazione che, secondo il blog del Sole24ore, arriverebbe a 2,8 miliardi di euro dei quali 1,4 relativi alla Cassa di Cesena.
Per quanto riguarda Rimini, la cifra dei crediti inesigibili stabilita dalla stessa Carim dovrebbe invece variare tra gli 800 e i 900 milioni, ma, numeri a parte, può essere interessante mettere in fila alcuni elementi che non sono ancora definiti. Infatti, in tutto questo fiorire di notizie, ci sono ancora dei particolari che nemmeno i più diretti interessati conoscono ancora e che potranno essere definiti solo nel corso della trattativa o delle fasi più avanzate della cessione stessa.
Quello che si sa.
La trattativa per la cessione di Banca Carim è ormai entrata nel vivo. A condurla in realtà sono Banca d’Italia, il Fondo Interbancario e Cariparma, mentre Carim non può fare altro che aspettarne l’esito. Tanto che la banca del gruppo francese poco si è preoccupata ancora di fornire ai tre istituti che intende acquisire un vero piano industriale con i propri obiettivi e strategie.
Per quanto riguarda JC Flower, che era interessato alla sola banca riminese, ci ha smentito direttamente che stia tentando o abbia tentato una cordata con altri soggetti per allargare l’operazione alle tre banche (sic), e anche per questo sembra ormai fuori gioco. È evidente infatti che Banca d’Italia deve approfittare di questa operazione per piazzare San Miniato, per la quale non è in grado di trovare una soluzione ‘individuale’.
Quello che non si sa.
Se pur sembra ormai chiarito anche il meccanismo dell’operazione - con il Fondo Interbancario che acquisirà Banca Carim e poi, dopo averla ‘pulita’ dai crediti inesigibili, la cederà a Cariparma - i due passaggi contengono ancora incognite importanti.
Primo. Banca Carim ha stabilito l’ammontare dei propri crediti inesigibili, da inserire a bilancio con le svalutazioni relative, ma nella trattativa Cariparma potrebbe contestare il bilancio, sostenere che queste valutazioni sono da rivedere e chiedere di modificare le stime di recupero dei crediti o il valore della loro cedibilità. Anche se, essendo le cifre frutto di valutazioni successive all’ultima ispezione di Banca d’Italia, sarebbe come dire che a sbagliare è stato lo stesso ente di controllo.
Secondo. All’atto effettivo della cessione (la cartolarizzazione) dei crediti inesigibili di Carim, che avverrà spacchettando gli stessi in modo da separare i ‘disperati’ dai più o meno ‘vendibili’ (in termini tecnici: junior, mezzanine, senior) per cederli ad acquirenti diversi, il Fondo Interbancario potrebbe in realtà ottenere meno soldi di quelli preventivati.
In entrambi i casi, i numeri dell’intera operazione ne verrebbero condizionati in modo più o meno decisivo.
In sintesi.
Il Fondo Interbancario acquisisce Banca Carim con una ricapitalizzazione che ne riporti appunto il capitale alle soglie stabilite dalla normativa europea. A fronte di questa operazione prevede di ottenere 150 milioni da Cariparma per Cesena (almeno secondo i ‘si dice’ emersi fino ad oggi) e si accollerà parte dei milioni necessari per la cessione dei crediti deteriorati; una operazione che, solo per Carim, dovrebbe costargli tra i 220/250 milioni per far si che la banca sia in regola e cedibile a Cariparma.
Ma se la cessione dei crediti richiedesse un maggior esborso oppure se Cariparma contestasse altre partite di bilancio di Banca Carim, ugualmente si troverebbe a dover aumentare il proprio impegno economico.
Tutto questo naturalmente influirebbe sul valore delle azioni di Carim in possesso agli attuali soci, sperando poi che le eventuali variazioni di cifre previste non ostacolino o mandino all’aria la trattativa con Cariparma o addirittura la decisione del Fondo di acquisire le tre banche compresa Rimini.
L’incertezza durerà comunque poco, dato che a giugno, cioè entro 120 giorni dalla presentazione delle offerte, una parola chiara e definitiva dovrà essere detta. E scritta.
Caso Sinti. Non razzismo, manca una speranza
Il progetto di chiusura del campo nomadi di via Islanda ha generato reazioni e scambi di accuse ogni giorno più gravi e più esasperate. Fino all’accusa esplicita di razzismo rivolta al Comitato dei residenti in quanto contrario all’ipotesi di suddividere le undici famiglie sinti, che adesso abitano nel campo, in altrettanti quartieri cittadini.
In questa situazione il dialogo è difficile e, pur sancita la necessità imposta dalla legge di smantellare il campo, una discussione pratica sulle soluzioni e sugli eventuali aggiustamenti a quanto già deciso non sembra essere possibile. Ma soprattutto, uno scontro solo ideologico o solo istintivo come quello attuale non consente di comprendere ciò che questa situazione rivela delle difficoltà e del ‘sentimento’ di tanti cittadini, non solo riminesi, nella società in cui viviamo.
Esemplificativa di questo ‘sentimento’ è stata la reazione del Comitato alle parole del vescovo Lambiasi alle Ceneri, percepite come un giudizio e una ‘condanna’ morale: “Il vescovo non dovrebbe giudicarci, ma aiutarci a trovare una soluzione concreta.” Una reazione che essi stessi hanno definito “dispiaciuta”, di certo perché la Diocesi non è una controparte e perché, pur nelle diverse condizioni, i valori richiamati dal vescovo dovrebbero comunque costituire una base comune del vivere civile.
Allora la domanda è proprio questa: come è possibile conciliare questi valori con le nostre aspettative, le nostre paure e le nostre angosce? Una domanda a cui oggi, tutti, ci troviamo di fronte.
Un’osservazione che occorre fare per rispondere è che il primo fattore che genera questo corto circuito tra i valori e la vita quotidiana è certamente la solitudine personale, quel percepirsi da soli che sempre più spesso ognuno sperimenta nelle diverse vicende e prove della propria vita e che sembra essere l’unica legge che governa questa nostra società pur sempre più ‘connessa’. Una solitudine che, quando è senza alternative, genera sospetto verso ogni rappresentanza, paura verso ogni alterità o fatto imprevisto che ci accada, non trova altro sbocco che un risentimento generale che coinvolge tutto e tutti. E che sia una discussione di condominio, che riguardi il cambio di una maestra a scuola, l’arrivo di un nomade, di un nuovo vicino di casa o di un nuovo collega di lavoro cambia poco.
Ma soprattutto, questa solitudine ‘esistenziale’ ci toglie il piacere stesso del vivere insieme, o meglio la certezza che la nostra vita e la nostra azione possano costruire, insieme agli altri, un mondo migliore; ci toglie ogni prospettiva di bene, senza la quale non resta altro che la difesa immediata di ciò che abbiamo conquistato e sentiamo nostro di diritto.
In questo senso, la “soluzione concreta” che è stata invocata non può essere, prima di tutto, che ‘qualcosa’ che rompa questa solitudine, una qualche compagnia umana che sappia accogliere anche ogni nostra difficoltà o paura e sia essa stessa la prima occasione e la prima verifica di un mondo più umano.
Ridire oggi che l’accoglienza è un valore, che l’’altro’ è parte dinamica della mia stessa identità, non è dunque un “giudizio” su qualcuno, ma l’invito a una speranza da ricercare insieme nella nostra vita.
E che queste non siano parole astratte lo dimostra la schiera di persone reali che, anche vicinissime a noi, si occupano “con allegrezza” dei malati più gravi, dei senza tetto, di quelli senza lavoro o senza patria; non solo associazioni di volontariato, ma anche singole persone che, incontrando casualmente qualcuno che ha bisogno, non si tirano indietro, indipendentemente dalla disgrazia che l’ha colpito o dalla sua provenienza.
Ma come accade per quei malati, migranti, disoccupati o altro, anche per ognuno di noi la speranza di vedere accolta tutta la nostra umanità passa sempre attraverso il volto di una persona concreta che un certo giorno ci troviamo a incrociare sulla nostra strada.
“Cercare ogni giorno il volto dei Santi” non è davvero un’occupazione solo da cristiani.
(rg)
Tour Fellini con Gérald Morin
Immagini del tour evento con Gérald Morin, sulle tracce di Fellini a Rimini, organizzato da Apt Servizi Emilia Romagna e dalla Cineteca di Rimini, con un gruppo di direttori di cineteche di tutto il mondo impegnati in Congresso a Bologna
Amarcord Fellini, tour con Gérald Morin
Rosita Copioli riprende e completa per buongiornoRimini l’articolo pubblicato da «Avvenire», 7 luglio, «Amarcord Fellini in tour con Morin» che riprende il tour evento con Gérald Morin, sulle tracce di Fellini a Rimini, organizzato da Apt Servizi Emilia Romagna e dalla Cineteca di Rimini, con un gruppo di direttori di cineteche di tutto il mondo impegnati in Congresso a Bologna.
A Rimini, nel caldo pomeriggio di lunedì 27 giugno battuto dal vento di garbino, si è svolto un percorso dedicato a Federico Fellini, che si è trasformato in evento, grazie alla presenza di Gérald Morin. Morin è stato accanto a Fellini per sei anni dal 1971 al 1977, sia come segretario privato per Roma, sia come assistente alla regia per Amarcord e Casanova, e gli ha dedicato una cura delle più attente, alimentata con dei saggi, una raccolta di 13.500 documenti diventata la Fondazione Fellini di Sion in Svizzera, e un film documentario, Sulle tracce di Fellini (2013).
La visita era organizzata da APT Servizi Emilia Romagna rappresentata da Isabella Benedettini e Raffaella Rondolini e dalla Cineteca del Comune di Rimini con il responsabile Marco Leonetti, per quaranta direttori e responsabili di cineteche e archivi cinematografici di 21 paesi, aderenti alla Federazione internazionale degli archivi filmografici (FIAF), impegnati nel Congresso annuale a Bologna. Prima c’è stato l’omaggio alla tomba-prua di Arnaldo Pomodoro che ospita anche Giulietta e il figlio Federichino (il cimitero: «Un luogo affascinante di Rimini ... Mai visto un posto meno lugubre... era sempre in costruzione, quindi c’era un’aria di festa», scrive Fellini in La mia Rimini). Poi, oltrepassato il borgo San Giuliano, ex covo di anarchici già abitato dai pescatori che nel 1971 l’urbanista Giancarlo De Carlo (padre di Andrea che doveva collaborare con Fellini per il film su Castaneda e finì per scrivere Yucatan) avrebbe risparmiato dalle demolizioni per puri meriti politici, ex borgo estremo dove Fellini favoleggiò di avere abitato nell’ultima casa, è stato seguito il percorso romano della Flaminia fino al ponte marmoreo di Tiberio sul Marecchia. Non così trascurabile se Fellini apre Roma con l’ironico attraversamento del Rubicone fatto da Cesare in trasgressione al senato, per proiettarvi la sfida del proprio destino, e se mantiene nella satira di Amarcord lo sfondo delle gloriose origini romane, che il fascismo esaltava.
Imboccato il decumano del corso d’Augusto, la seconda tappa è stata il cantiere del Fulgor, il cinema dell’adolescenza di Fellini, destinato a diventare la Casa del Cinema o Centro studi dedicato a lui nel bel recupero di Annio Maria Matteini con arredi di Dante Ferretti: due sale di proiezione, cineteca, archivio, museo, luogo di ricerca. Era il palazzetto di Demofonte e Aurelio Valloni da Carpegna, ricostruito dal Valadier dopo il terremoto del 1786, trasformato da Addo Cupi nel 1920 in quella incubatrice di sogni che Fellini avrebbe voluto descrivere anche in Block-notes di un regista, aggiungendolo ai soggetti del teatro dell’Opera e di Cinecittà (l’unico che rimane in Intervista, 1988). Anche qui Rimini romana si è imposta ritardando i lavori: domus sotterranea, mosaici, 57 tombe. Ma prima o poi accoglierà la consistentissima dotazione, unica al mondo, del «patrimonio felliniano» che mi riassume Nicola Bassano, subentrato al precedente curatore Giuseppe Ricci. Un assaggio è stato mostrato al Museo per l’occasione, con la regia dello stesso Morin e della moglie Françoise, intorno ai disegni di Fellini già esposti per la Biennale diretta da Massimo Pulini (in corso in tutta Rimini) e al Libro dei sogni: sceneggiature e costumi del Casanova con le maschere del carnevale a Venezia, l’uccello meccanico, costumi della sfilata ecclesiastica di Roma, di cui proprio Morin aveva inventato raffinati nomi di modelli (Tourterelles immaculées, Petites soeurs de la tentation du Purgatoire, Au Paradis toujours plus vite) quando, arrivato a Roma ventottenne il 30 luglio 1971 con l’incarico di un’intervista a Fellini, capita durante le riprese di Roma a Trastevere, e diventa parte della famiglia felliniana. Poiché è gesuita, attraverso monsignor Romeo Panciroli, segretario del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, fa ottenere a Fellini il permesso di riprendere il pastore con il gregge sulla piazza di San Giovanni in Laterano.
Scrive Morin in «Roma, Amarcord, Casanova. Note per una Introduzione al grande trittico autobiografico di Fellini» (inedito), che a cinquant’anni Fellini aveva superato l’angoscia della pagina bianca (come aveva fatto con 8 ½ dopo La dolce vita), con «un docu-fiction, un grande documentario immerso nell’invenzione dove tutte le epoche si mescolano [...] un po’ come una passeggiata agli inferi nelle viscere dei ricordi [... ] nell’inquietudine di un quotidiano che vi sfugge e nell’apprensione d’un futuro sconosciuto». L’irriverente sfilata si inserisce in Roma «nell’autopsia di un eterno spettacolo» (L’autopsia di un eterno spettacolo, 1972). All’epoca Morin avrebbe dovuto procedere verso il sacerdozio. Anche per questo divenne il secondo bersaglio (dopo Fellini) di un agguerrito gesuita, Enrico Baragli: proprio lui discendente da una nobiltà svizzera e internazionale, fedele alla corte pontificia, un bisnonno che nel 1867 a Villa Glori aveva ucciso Enrico Cairoli. Passando davanti al ritratto del bisnonno la nonna mormorava con devozione «C’était un saint», e Gérald, giovane ribelle piuttosto repubblicano, ribatteva: «Oui, un assassin». Con Roma Gérald Morin varcò anche lui il suo Rubicone. La sua stessa biografia si è intrecciata con l’autobiografia di quel trittico di Fellini (Une passion dévorante, Avec Fellini et Casanova, 2009). Nel 1977, rinunciati i voti, lascia anche il padre elettivo, si dedica a un’attività poliedrica: comunicatore di radio, televisione, giornali, responsabile della preparazione e produzione di 50 film sotto diversa veste: aiuto regista, produttore in senso stretto, organizzatore generale (da Il nome della rosa di Annaud a Le cinque variazioni di von Trier), creatore di festival, docente, Presidente del consiglio della Cultura del Vallese, direttore della rivista «Cultureenjeu». Adesso prepara un documentario su Democrazia, potere e... Machiavelli e il Diario tenuto durante le riprese di Roma, Amarcord e Casanova.
Come si comprende da una simile configurazione, non sono solo aneddoti inediti e spiritosi quali la vera storia per cui Fellini prese Sutherland invece di Volonté per il Casanova, a incantare l’uditorio tecnico dei direttori di cineteca, ma una competenza e autorevolezza assolute.
In quel lunedì garbinoso non poteva mancare il prototipo della Piazza Italiana, con Rimini prima provincia (anche nel senso di prima colonia romana dedotta nel 268 a. C). Nella piazza dell’Arengo-Cavour dove in Amarcord accanto alla fontana innevata appariva il pavone del conte, e finalmente dopo le bombe dell’ultima guerra sta per essere riaperto il teatro del Poletti inaugurato nel 1857 da Giuseppe Verdi, attendeva il sindaco appena rieletto in «clamorosa vittoria al primo turno», che Sergio Zavoli ha salutato in una riflessione sui nuovi «ardui scenari della politica». La «musica di ciò che accade», come dicono gli irlandesi, dettava la regia del discorso appassionato di Andrea Gnassi prestamente tradotto da Monia Galavotti, colto cicerone poliglotta. Foto di gruppo e giù al Museo, poi verso il Grand Hotel che «diventava Istanbul, Bagdad, Hollywood», quindi al Rock Island all’estrema palata del porto, scena da Vitelloni ma con sole rosso al tramonto, e bandiera italiana rapita all’entusiasmo dei tifosi di Italia-Spagna.
Rosita Copioli