Il progetto di chiusura del campo nomadi di via Islanda ha generato reazioni e scambi di accuse ogni giorno più gravi e più esasperate. Fino all’accusa esplicita di razzismo rivolta al Comitato dei residenti in quanto contrario all’ipotesi di suddividere le undici famiglie sinti, che adesso abitano nel campo, in altrettanti quartieri cittadini.
In questa situazione il dialogo è difficile e, pur sancita la necessità imposta dalla legge di smantellare il campo, una discussione pratica sulle soluzioni e sugli eventuali aggiustamenti a quanto già deciso non sembra essere possibile. Ma soprattutto, uno scontro solo ideologico o solo istintivo come quello attuale non consente di comprendere ciò che questa situazione rivela delle difficoltà e del ‘sentimento’ di tanti cittadini, non solo riminesi, nella società in cui viviamo.
Esemplificativa di questo ‘sentimento’ è stata la reazione del Comitato alle parole del vescovo Lambiasi alle Ceneri, percepite come un giudizio e una ‘condanna’ morale: “Il vescovo non dovrebbe giudicarci, ma aiutarci a trovare una soluzione concreta.” Una reazione che essi stessi hanno definito “dispiaciuta”, di certo perché la Diocesi non è una controparte e perché, pur nelle diverse condizioni, i valori richiamati dal vescovo dovrebbero comunque costituire una base comune del vivere civile.
Allora la domanda è proprio questa: come è possibile conciliare questi valori con le nostre aspettative, le nostre paure e le nostre angosce? Una domanda a cui oggi, tutti, ci troviamo di fronte.
Un’osservazione che occorre fare per rispondere è che il primo fattore che genera questo corto circuito tra i valori e la vita quotidiana è certamente la solitudine personale, quel percepirsi da soli che sempre più spesso ognuno sperimenta nelle diverse vicende e prove della propria vita e che sembra essere l’unica legge che governa questa nostra società pur sempre più ‘connessa’. Una solitudine che, quando è senza alternative, genera sospetto verso ogni rappresentanza, paura verso ogni alterità o fatto imprevisto che ci accada, non trova altro sbocco che un risentimento generale che coinvolge tutto e tutti. E che sia una discussione di condominio, che riguardi il cambio di una maestra a scuola, l’arrivo di un nomade, di un nuovo vicino di casa o di un nuovo collega di lavoro cambia poco.
Ma soprattutto, questa solitudine ‘esistenziale’ ci toglie il piacere stesso del vivere insieme, o meglio la certezza che la nostra vita e la nostra azione possano costruire, insieme agli altri, un mondo migliore; ci toglie ogni prospettiva di bene, senza la quale non resta altro che la difesa immediata di ciò che abbiamo conquistato e sentiamo nostro di diritto.
In questo senso, la “soluzione concreta” che è stata invocata non può essere, prima di tutto, che ‘qualcosa’ che rompa questa solitudine, una qualche compagnia umana che sappia accogliere anche ogni nostra difficoltà o paura e sia essa stessa la prima occasione e la prima verifica di un mondo più umano.
Ridire oggi che l’accoglienza è un valore, che l’’altro’ è parte dinamica della mia stessa identità, non è dunque un “giudizio” su qualcuno, ma l’invito a una speranza da ricercare insieme nella nostra vita.
E che queste non siano parole astratte lo dimostra la schiera di persone reali che, anche vicinissime a noi, si occupano “con allegrezza” dei malati più gravi, dei senza tetto, di quelli senza lavoro o senza patria; non solo associazioni di volontariato, ma anche singole persone che, incontrando casualmente qualcuno che ha bisogno, non si tirano indietro, indipendentemente dalla disgrazia che l’ha colpito o dalla sua provenienza.
Ma come accade per quei malati, migranti, disoccupati o altro, anche per ognuno di noi la speranza di vedere accolta tutta la nostra umanità passa sempre attraverso il volto di una persona concreta che un certo giorno ci troviamo a incrociare sulla nostra strada.
“Cercare ogni giorno il volto dei Santi” non è davvero un’occupazione solo da cristiani.
(rg)