Cosa direbbe a una persona ignara che le chiedesse chi era mai quell’uomo per il quale ha celebrato i funerali il 14 luglio nel duomo di Rimini? Perché tanta gente in un caldo pomeriggio d’estate, e poi perché quel clima quasi di festa, di gioia e dolore che convivevano insieme senza stonature? Don Claudio Parma, amico di Vittorio Tadei, l’imprenditore fondatore del gruppo Teddy, riflette e risponde: «Direi che è morto un uomo, un uomo vero. Un uomo che ha avuto la consapevolezza dei propri limiti e del proprio peccato e, insieme, dell’inspiegabile misericordia di Dio. Può Dio avere tanta misericordia? Questa è la domanda che ha accompagnato la sua vita. Quando accade che un uomo viva così, gli altri uomini accorrono perché capiscono chi sono. Vittorio era un uomo pieno di limiti stupito della misericordia di Dio che lo salva».
Già nell’omelia del 14 luglio don Parma aveva citato un episodio della biografia di Tadei: «Da giovane fu folgorato dalla frase letta in un libricino trovato fra le macerie di una casa distrutta dai bombardamenti. “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?” Un’altra frase biblica alla quale riandava spesso era: “Chi è mai l’uomo perché Tu ne abbia cura?”».
Fra don Parma e Tadei la frequentazione era di lunga data, quasi trent’anni. Da insegnante di religione all’Istituto per ragionieri Valturio aveva avuto fra i suoi alunni il figlio Gigi, scomparso dieci anni fa. Oggi avrebbe 47 anni. «Era molto intelligente, il più bravo della classe». Ma dovette lasciare gli studi per l’insorgere della malattia che cambiò la sua vita e quella del padre. Vittorio Tadei ha sempre detto che i suoi maestri erano appunto il figlio Gigi e don Oreste Benzi. Perché il figlio Gigi, cosa intendeva dire? «La malattia del figlio gli ha fatto avvertire tutta la sua debolezza, tutta la sua fatica di essere padre. Si sentiva incapace, impotente di fronte al figlio che accusava gravi fragilità. Il primo aiuto gli venne da don Oreste Benzi, che aveva fatto anche una sua diagnosi, poi non confermata dai medici. I vari specialisti consultati avevano stabilito che si trattava di una particolare forma di depressione. Non poteva essere guarita completamente ma si poteva curare per controllarla.
Vittorio di fronte a tutto questo si chiedeva perché la gente stesse male, non riusciva ad accettare che nel mondo ci fosse la malattia. Diceva: “Quando sarò dal Padreterno gli chiederò perché consente che le persone stiano male”. Con me il rapporto si è approfondito perché lui riconosceva in me una persona capace di stare con suo figlio. “Dove trovi questa forza?”, mi chiedeva. Lui viveva la sua impotenza e si stupiva che qualcuno riuscisse a fare del bene a suo figlio».
È un’amicizia da vertigine quella che con Parma ha vissuto con Tadei. «Abbiamo condiviso tutte le sue fatiche, non solo quelle personali. Si parlava anche dei problemi dell’azienda, che pure andava bene. Abbiamo condiviso i momenti di difficoltà, la fatica di stare in piedi fra tanti controlli e vincoli di legge. Lui era orgoglioso di ciò che era riuscito a realizzare. Commentava: “Mi dovrebbero dare la medaglia perché ho creato tanti posti di lavoro, e invece mi creano un sacco di difficoltà”».
Parlare dell’azienda, il gruppo Teddy, significa parlare del sogno, parola centrale nel vocabolario di Vittorio. Il sogno voleva dire un’azienda impostata su criteri diversi da quelli soliti, dal lavoro per i disabili alla destinazione degli utili per opere sociali. «Il sogno – spiega don Parma - è nato dalla sua posizione di uomo di fede educato dalla croce di Gigi. Vedeva che don Oreste aiutava gli ultimi e lui uno di questi ultimi lo aveva in casa. Tutte le opere sociali che ci sono nel mondo, finanziate da Vittorio, sono nate perché c’è stato Gigi nella sua vita. Quando passavamo davanti alla polisportiva Stella, commentava: “Questa c’è perché c’è stato Gigi, ho iniziato a comprare i terreni perché lui potesse giocare”. Si è fatto educare da suo figlio, ed è nato quel che è nato».
Il suo percorso umano ha dovuto affrontare prove fino all’ultimo giorno. «La fatica di accettare la malattia l’ha vissuta direttamente sulla sua pelle. Da quando è stato male, circa quattro anni fa, ciò che ha tenuto in piedi l’azienda è stata la sua malattia. Prima c’è stato il rifiuto poi lentamente l’abbraccio di questa condizione nuova, fino a riconoscere che quella era la sua vocazione, il modo a cui era chiamato per amare il mondo».
Ma qual è stata la sua genialità? «E’ stata un’intelligenza, vera, acuta della realtà. Per questa ragione aveva uno spiccato senso degli affari. Ascoltava tutti, ma proprio tutti, era interessato al parere di ciascuno, poi faceva le sue valutazioni e prendeva le decisioni. Ma era un uomo molto capace di ascoltare».
Vittorio Tadei era figlio di una famiglia di tradizione cristiana, la fede l’aveva ricevuta dal padre e dalla madre. Da ragazzo era rimasto colpito che il babbo avesse accolto in casa i cugini che erano rimasti orfani. Di lui si sono sottolineate all’infinito la bontà e l’enorme generosità. «Tutto vero ma tutto nasce dall’accusa dei propri peccati e dall’abbraccio della misericordia. Non è un caso che nel suo libretto dei salmi fossero sottolineati proprio quelli che esprimevano questi temi».
Cosa le ha insegnato? «Per temperamento sono un uomo che si butta nelle cose, lui mi ha insegnato a spendere la mia vita, ad essere in prima linea - come diceva lui - con un sguardo attento ai giovani e al loro bisogno di educazione. Lui mi ha aiutato ad essere prete in questo modo. La cooperativa Amici di Gigi è sorta così. “Io non so come fare ad aiutare i giovani, ma posso finanziare, fin dove posso, chi è capace di farlo. Oggi ti offro questo contributo, domani, se me lo chiedi, ti dirò se posso fare un altro passo”».
E anche don Claudio Parma ama sottolineare che Tadei era un uomo amante dell’amicizia, un romagnolo verace, a cui piaceva cantare Romagna mia e giocare a carte. E – osserva - forse non è un caso che il suo funerale si sia svolto il 14 luglio, festa di san Camillo de Lellis, un santo che teneva sempre un mazzo di carte sotto il cuscino. E Tadei lo teneva sempre in tasca.
Valerio Lessi