Dio non è invadente. Non vince a tutti i costi. Per la libertà dell’uomo si sottomette alla debolezza. Dimostra così la propria onnipotenza. Gli è naturale scegliere l’impotenza per lasciare esistere l’altro: pienezza dell’amore senza paragoni. Tale è stato l’inizio (la creazione), tale è la storia: la Sua parola non si sovrappone ai discorsi umani; per parlare aspetta l’attenzione di un silenzio libero.
Solo a questa condizione l’uomo ha dato forme al tempo. Sia che privilegiasse il dialogo col sacro sia che decidesse per un soliloquio, nella dimensione del profano secolarizzato. La liberalità di Dio ha permesso anche questo. Affinché l’uomo sperimentasse le proprie dimensioni. Perciò abbiamo avuto un’epoca che ha implicato il tempio e un’epoca in cui l’uomo ha escluso il tempio, trasferendone l’altare nel secolo. Kierkegaard la chiama “modernità: la cristianità senza Cristo”. Tesi della modernità non è l’inesistenza di Dio (ateismo teorico), quanto la Sua inutilità nella costruzione della città terrena (laicismo/ateismo pratico). L’uomo moderno tira le estreme conseguenze della propria libertà in cui Dio l’ha pensato. Perciò, mosso dall’idea di superare l’imbecillitas cristiana, il moderno escogita la potenza economico-tecnologica per fondare politicamente il soggetto. Come ogni generosa impresa, richiede ciclici bagni di sangue: le guerre cosiddette “di religione” confluite nella guerra dei trent’anni, il primo colonialismo europeo e le rivoluzioni liberal-democratiche creano lo Stato-nazionale; la rivoluzione fascista e proletaria, incubatrice dello Stato-totalitario, e due guerre mondiali, scoppiate all’apice delle magnifiche sorti progressive, chiudono il cerchio.
L’orrido di questo percorso doveva far nascere il sospetto che ad essere dimostrata non fosse l’inutilità di Dio, quanto la strutturale imbecillitas umana. Ma, per non mettersi in discussione radicalmente, il moderno ha occultato il proprio insuccesso dietro il dibattito ideologico-storiografico dell’antifascismo, rovesciando le responsabilità sull’irrazionalità (G.Lukàcs, La distruzione della ragione 1934) anziché sulla propria iper-razionalità.
Qualcuno ha chiamato anche il silenzio di Dio sul banco degli imputati. Mentre il silenzio di Dio, sarebbe bastato ascoltarlo, era sul banco degli innocenti. Con questo si evitava per l’ennesima volta di prendere atto che Dio si sottomette alla libertà umana – anche sfigurata - restando indisponibile a rientrare forzatamente nel tempo secolarizzato dal quale è stato cacciato.
Come notava Del Noce, alla fine della seconda guerra mondiale restavano due possibilità: un risveglio religioso (quello che Peguy direbbe il ritorno a Cristo dopo il clericalismo moderno) o la società del benessere (quella del soggetto senza fondamento politico, anzi senza fondamento alcuno diranno i padri del post-moderno Heidegger e Sartre). Il risveglio religioso richiedeva di mettere in discussione la tesi di nascita della modernità. Ma l’occultamento dietro il “discorso dell’antifascista” non lo permetteva e così si inaugurava, come profetizzerà Pasolini, la sottomissione al nuovo potere: il “discorso del capitalista”. Liberalismo e sovranità, democrazia e comunismo - aporie del moderno - si ritrovarono a festeggiare la società dei consumi (Agamben, Homo sacer). Nata per liberare la vita dalla schiavitù per mezzo della sovranità dello Stato e dall’ingiustizia per mezzo della democrazia proletaria, la modernità del soggetto politicamente fondato si è trovata catapultata nella modernità del soggetto economicamente svuotato.
La prima modernità, quella dura, fondava l’uomo sulla potenza del progetto politico. La seconda, quella fluida, lo dissolve nella potenza del gadget pubblicitario. La si dice post-modernità per esprimere il passaggio al di là del soggetto. Si può anche chiamarla seconda modernità per la sua resistenza a mantenersi alla tesi originaria. Tuttavia la forma più onesta è quella di ipermodernità (usata per la prima volta da G. Lipovetsky e S. Charles in Les Temps hypermodernes, Paris 2004): dove Dio non serve, anche l’uomo si fa inutile dissolvendosi nella moda. La mancanza di fondamento consegna l’essenza alla potenza pura dello spettacolo. E’ l’inizio della rivoluzione antropologica che può portare allo svuotamento del soggetto, come insegna la psicanalisi lacaniana: la carica soggettivante del desiderio ingannata compulsivamente con le immagini di un piacere mortifero (De Sade e Pasolini docent con le 120 giornate di Sodoma, che il perbenismo borghese ha sempre contribuito a tenere fuori dai circuiti “diseducativi”). In questo contesto non sembra fuor di luogo la proposta degli ultimi due pontefici: sperimentare lo stile divino: vivere l’impotenza delle periferie con l’ipotesi dell’esistenza di Dio. Si tratta di una sfida geniale: non comporta nessuna rinuncia, possiamo tenerci tutto quanto abbiamo; solo, invita al rovesciamento di prospettiva, seguendo l’affascinante scoperta che autentica potenza è fare spazio all’altro.
Alfiero Mariotti