Se c’è un punto su cui tutti concordano è che il reale valore aggiunto dello splendido volume su Il Trecento riscoperto – Gli affreschi della Chiesa di Sant’Agostino a Rimini sia dato dal servizio fotografico realizzato dal riminese Gilberto Urbinati. Certo, sono importanti i saggi di Daniele Benati e Alessandro Giovanardi, ma loro stessi, così come Antonio Paolucci, hanno più volte sottolineato che il loro lavoro critico è stato reso possibile dall’avere per la prima volta esaminato gli affreschi della Scuola riminese del Trecento con una nitidezza che l’occhio nudo non è in grado di raggiungere neppure a distanza ravvicinata.
Il volume è stato presentato, ieri pomeriggio nella chiesa di Sant’Agostino stracolma di persone, da tutti i protagonisti di questa avventura editoriale, nata su provocazione di Paolucci, promossa dall’Istituto di scienze religiose A. Marvelli e finanziata dalla Fondazione Carim e da Credit Agricole.edita da Silvana e stampata da Pazzini di Verucchio.
Urbinati nel 1995 faceva il servizio di sala alla mostra sul Trecento riminese promossa dal Meeting, a sessant’anni di distanza da quella del 1935 voluta da Cesare Brandi. In quei giorni è scattato l’interesse per la pittura del Trecento che lo ha portato a realizzare per la prima volta una documentazione fotografica a colori e ad alta definizione dell’intero ciclo di affreschi. Si consideri, infatti, che di alcune pitture esistevano fino ad oggi solo immagini in bianco e nero di un secolo fa. La molla che ha fatto scattare il processo è stata una richiesta della National Gallery. Da quell’esperienza ha capito che doveva trovare il modo per superare difficoltà di precisione che aveva incontrato. Oltre a una macchina da 50 megapixel, ha reperito uno strumento, che Urbanati per segreto professionale non ha voluto rivelare, che gli permette di fotografare i dipinti frontalmente.
La controprova di aver trovato la strada giusta l’ha avuta quando ha dovuto realizzare un’immagine dell’affresco di Piero della Francesca nel Tempio Malatestiano, chiestagli da una studiosa olandese. “Sono stato particolarmente generoso – ha raccontato- e ho inviato anche alcuni particolari. La studiosa ha risposto che ora avrebbe potuto anche scrivere un saggio su quell’affresco perché per la prima volta vedeva anche le pennellate”. Urbinati ha quindi spiegato che le sue immagini sono ad una definizione così alta che “se il libro fosse stato stampato in formato poster le immagini avrebbero avuto la stessa nitidezza”. Il fotografo ha confessato solo una delusione: non aver trovato la firma di alcun pittore. Ha però rilevato una scritta ai piedi di un dipinto su san Gregorio, che ad occhio nudo non è visibile. “Mi sono riproposto la missione di far vedere agli storici dell’arte dettagli che altrimenti non potrebbero esaminare”.
La fotografia può aiutare a salvare l’arte. Urbinati, volendo fotografare tutte le opere della scuola riminese del Trecento, è andato a Mercatello sul Metauro per riprendere il Crocifisso di Giovanni da Rimini custodito nella chiesa di san Francesco. “Tornado a casa, al computer, ingrandendo l’immagine, ho visto che il Crocifisso era pieno di buchi fatti dai tarli”. È così partita l’idea del restauro che, come ha annunciato Linda Gemmani della Fondazione Carim, sarà finanziato dal Soroptimist. Nell’autunno prossimo il Crocifisso restaurato sarà esposto a Rimini.
L’ex ministro Antonio Paolucci, che firma la presentazione del volume, ha sostenuto la Chiesa di sant’Agostino “sta al Trecento riminese come gli affreschi di Santa Croce a Firenze stanno al Trecento fiorentino”. Ha quindi aggiunto che “L’originalità di questo libro esaustivo e convincente sta nell’aver voluto studiare le pitture trecentesche di Sant’Agostino utilizzando un doppio registro analitico: quello filologico tipico della scienza storico-artistica (il saggio di Benati, curatore della mostra del 1995) e quello della interpretazione simbolica, iconografica, iconologica, liturgica (il saggio di Giovanardi)”. Paolucci ha ricordato che, quando la chiesa era dei monaci agostiniani, esisteva un divisorio fra l’assemblea dei fedeli e il presbiterio, sul quale calava dall’alto il Crocifisso che ora si trova sulla parete destra della navata (per chi entra in chiesa). Un’ipotetica raffigurazione della situazione antica è stata poi mostrata con una slide da Giovanardi. “Il fedele che entrava in chiesa – ha osservato Paolucci – era attirato dal grande Cristo pantocratore dalle orecchie particolarmente grandi perché deve ascoltare le suppliche del popolo. Come entrare nella divinità di Cristo? Attraverso la sua umanità, cioè il Crocifisso”. Giovanardi ha poi spiegato che quel divisorio aveva una funzione mistagogica, cioè di introduzione al mistero.
Benati ha ricordato come il passaggio di Giotto in città abbia scatenato una reazione (la nascita di una scuola riminese, appunto) che non c’è stata in altre città visitate dal Maestro. La prima risposta dei riminesi sono gli affreschi del 1303 nella cappella del campanile di sant’Agostino. Lo studioso nel suo saggio ritiene inoltre che l’autore del Giudizio universale non sia un anonimo (in letteratura lo si chiama maestro dell’Arengo dal luogo in cui l’affresco è stato a lungo collocato) ma la bottega di Giovanni da Rimini. Benati indicata anche la data in cui fu realizzato, 1318, in coincidenza con il capitolo degli eremitani agostiniani. Ipotizza inoltre una scuola riminese formata da tre fratelli, Giovanni, Giuliano e un non meglio specificato Zangolus, che starebbe per Giovanni Angelo. Per il resto non resta che immergersi nella lettura del libro e nella contemplazione delle immagini, come suggerisce il vescovo di Rimini Francesco Lambiasi.
Valerio Lessi