Tra interviste e dichiarazioni elettorali, nella cronaca riccionese di questi ultimi giorni vale la pena evidenziare l’uscita pubblica del presidente della provincia Riziero Santi; e che sia stata una sorta di autocandidatura o invece un intervento da padre nobile, preoccupato per la deriva del Pd, poco importa. Qui non interessa infatti la sua votabilità, ma il fatto che un partito, attraverso un suo esponente, dia un segnale di residua vitalità e di pur minima autostima necessarie a non autoescludersi dal dibattito cittadino. E accoglieremmo allo stesso modo un qualche cenno da qualsiasi altro partito.
Perché a ben guardare non si tratta più, nel caso specifico di Riccione, dell’auspicato ingresso della società civile nella gestione della cosa pubblica, ma di una sorta di ‘rapimento’ della politica, di sostituzione di un sistema di rappresentanza incentrato sui partiti (che è anche un po’ strano dover difendere) con un altro sistema quasi ‘balcanizzato’, con tante aggregazioni cresciute e confezionate su misura su una singola persona, come se la città fosse esplosa in mille schegge diverse. O come se, ormai certificato che il Pd non è più garante esclusivo di niente (e figuriamoci gli altri partiti), ci si fosse infine accorti che è possibile giocare in proprio, senza intermediari. Un ragionamento logico e lineare secondo quelle che sono le pratiche comuni nel business e come se la buona amministrazione coincidesse appunto con una buona pratica imprenditoriale.
Che dunque nel mare di personalismi che è oggi la scena politica riccionese, qualcuno – chiunque – provi a parlare di politica e non solo di se stesso, riavvii un confronto pubblico nel quale infine identità, valori, visioni, contino di più dell’immagine del candidato e del suo ultimo posizionamento, è una buona notizia e una novità che potrebbe risolvere l’impasse attuale in entrambi gli schieramenti.
A dettare l’agenda nella Perla, come amano chiamarla in modo confidenziale molti candidati nelle loro dichiarazioni, al momento sono infatti una serie di personalità cittadine che costruiscono la loro offerta politica proprio sulla notorietà di cui godono. Il primo è stato Claudio Cecchetto, l’ultimo, Attili Cenni. Nel mezzo, Fabio Ubaldi e, naturalmente, il sindaco Renata Tosi. Di certo qui nessuno vuole mettere in dubbio il merito di questa notorietà o la ‘bontà’ delle persone, ma solo evidenziare una dinamica comune, come cioè – pur in modo diverso uno dall’altro – ognuno di essi proponga se stesso come una sorta di brand commerciale, un ‘marchio’ che dovrebbe catalizzare i voti degli elettori per le caratteristiche legate al proprio successo e che una persona che è riuscita nel proprio campo deve certamente possedere (dalla tenacia alla competenza alla capacità di leadership eccetera eccetera), oltre che per il loro valore simbolico, quasi l’annuncio di un sicuro ritorno agli antichi fasti cittadini.
È quanto accade pur forzatamente per Renata Tosi perché, non essendo ricandidabile, non potrebbe neppure proporlo, un proprio progetto per la città (che invece spetta, o almeno spetterebbe, al candidato sindaco di cui vorrebbe farsi vice), e può così solo offrire se stessa come una sorta di certificazione di qualità.
Come è anche per Cecchetto e Cenni, che nelle loro dichiarazioni parlano in un modo ugualmente generico e molto simile tra loro di turismo e di buche nelle strade; e soprattutto evocano un ritorno ai tempi d’oro come se questo potesse dipendere tutto dalla loro autorevolezza, dalla 'fortuna' delle loro rispettive carriere; invocando in nome di esse una sorta di fiducia che dovrebbe valere più di ogni progetto o visione.
E come è pure per Fabio Ubaldi, o meglio per tutti i suoi di Riccione 2030. Perché sono tutti fighissimi, da far invidia a qualunque povero militante della vecchia politica; stilosi, eleganti, e per scelta fuori da ogni litigio o polemica, impersonando una terzietà che è stilistica prima che politica e una proposta che, come insegnano quelli della comunicazione, è soprattutto un tono di voce.
Ecco, a Riccione il dibattito politico assomiglia al momento più a una sfilata che a qualcosa che abbia a che fare con la vita e la carne dei cittadini, con la passione delle idee e magari le bollette; una sfilata nella quale ognuno si offre a tutti, offrendo il successo ottenuto nella vita come garanzia di un ritorno elettorale. Naturalmente dicendo le cose più banali possibili perché possano essere condivisibili a destra come a sinistra, dichiarando neutralità e assenza di preclusioni perché il loro successo 'può tenere insieme tutti e può far bene a tutti'.
Ben venga dunque chiunque rompa questo surplace, questo gioco di equilibri in cui ognuno aspetta di essere il prescelto senza sporcarsi le mani, senza scendere cioè nel merito delle scelte che, nella realtà, non sono mai unanimi. Così che si possa anche capire in cosa crede ognuno, oltre che in se stesso.
(rg)