Rimini, Charlie racconta una favola
Più di trent’anni sono forse troppi per questo calcio che corre appresso al presente e sotterra il passato. Le favole poi appartengono a un altro mondo ma il Rimini di quegli anni, i fine settanta, inizio ottanta, abitava in quel mondo. Era un calcio che veniva dalla terra, era l’era dei presidenti genuini e un po’ matti, di allenatori e giocatori ruspanti e a volte un po’ sgrammaticati: un pallone contadino, paesano, semplice. Sfogliando gli almanacchi, ci si accorge che sono proprio i giocatori di quegli anni gli ultimi a rappresentare quel pallone casereccio a cavallo tra “Il presidente del Borgorosso Football Club” del 1970 con Alberto Sordi e “L’allenatore nel pallone” del 1984 con Lino Banfi; forse l’unico all’altezza della passione nazionale il primo, un po’ trash ma comunque un cult il secondo. Tempi di battute e frasi storiche tipo questa di Costantino Rozzi che racchiude la passione sincera di quegli anni: “Voi forse non mi credete oppure vi metterete a ridere ma io non me ne vergogno: quando l'Ascoli perde mi viene da piangere. Quando la mia squadra esce battuta dal campo una tristezza mi assale e tutto mi precipita addosso". Il tempo insabbia il ricordo, inutile provare a fermarlo, inutile pensare che ieri sarà sempre meglio di domani, oggi c’è un altro calcio, ci sono altri interpreti. Né meglio, né peggio bisogna solo accettare il tempo che passa, quello che si rimpiange non sono le maglie di lana, quelle con i lacci, perchè la tradizione non finisce con il calcio globale, quello che non deve cambiare però è la magia, la passione che muove tutto: su quel terreno la palla deve rimbalzare sempre allo stesso modo. A volte la passione si smarrisce e per ritrovarla forse è più facile voltarsi indietro che guardare oltre, nella direzione del calcio cinico che si sporge verso i limiti. Allora l’immagine torna, la cronaca si fa memoria, non si può scindere e si rincorre senza volerlo in una serata dove si ritrovano i volti del Rimini di quegli anni, diversi e identici, perché l’idolo c’è anche quando finisce, anche quando si abbassa al livello della gente comune. Idolo non è troppo, non è esagerato, anche se non si parla di Tardelli, Rossi, Conti, perché non importa che l’idolo sia davvero il più forte, importa che sia l’artefice di qualcosa, la personificazione di un’emozione. Stoppani, Traini, Merli, Zannoni, Raffalli, Berlini, per citarne solo alcuni e poi l’argenteria, come in una sera di gala, con con bombardone Giordano Cinquetti, Giuseppe Donatelli e infine il capitano Charlie Sartori. E restare lì, ad ascoltare queste persone che si ritrovano attorno al libro “Rimini 100”, uscito lo scorso anno per festeggiare il centenario della maglia a scacchi, e assaporare cosa era il loro mondo visto da dentro per noi che l’abbiamo vissuto da fuori. E più si entra in quello spogliatoio, dove l’odore di umido si mischiava al grasso per lucidare le scarpe, più ci si convince di essere nella storia con i piedi sprofondati in alcune pagine della leggenda biancorossa. Allora c’è da capire dove possa essere custodita questa passione e si guarda verso il capitano per comprendere. Si guarda verso Carlo Sartori, tre stagioni in maglia biancorossa dal 1979 al 1982, uno che, tanto per capirci, prima di arrivare in maglia a scacchi era sceso in campo con il Manchester United 56 volte, giocando al fianco di George Best, si osserva e si nota che al braccio porta un vecchio borsello: quello di allora. Proprio quello. È dentro quel borsello che Charlie custodisce la passione, l’ha riportata a Rimini per una sera. Chissà, magari parlandone, ne resterà in città almeno un po’.
Francesco Pancari