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Arturo Martini a Faenza. Armonie, figure tra mito e realtà

Mercoledì, 13 Novembre 2013

6bArturo Martini a Faenza. Armonie, figure tra mito e realtà

 

In questi giorni si è inaugurata a Faenza una mostra di Arturo Martini nata dalla collaborazione tra la Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e la Fondazione del Museo Internazionale delle Ceramiche.


E proprio nel museo di Faenza è di scena la ceramica di Martini che prende le mosse dalle opere giovanili e giunge alle terrecotte di piccole dimensioni dell’età matura ma non solo; perché Martini, giovane artista irrequieto, è capace di passare dal legno intagliato con piglio espressionista al bronzo di sintesi quasi simbolista, dal gesso patinato al libro d’artista di impronta futurista come in Contemplazioni (nato nel periodo dell’esperienza faentina) e dalla formella in bassorilievo alla riedizione formale del vaso smaltato.


Sono gli anni a cavallo della grande guerra quando l’artista trevigiano è a Faenza per un breve periodo sulle tracce delle origini materne (la madre è infatti di Brisighella). Per l’esattezza, siamo nel ‘diciassette e Martini, che è arruolato, è in licenza per problemi di salute.


Così egli stesso ricorda nei suoi colloqui con Gino Scarpa, pubblicati postumi, le sue origini romagnole: ”(…) Mia madre, romagnola bellissima e analfabeta, voleva scrivere un romanzo. Invece faceva le creme. Ma tutto il suo sogno era l’arte, scrivere e morire seguita dalla musica. Voleva la celebrità, avrebbe voluto essere un personaggio. Io sono l’emanazione di mia madre, ho l’impeto romagnolo e il romagnolo, che non ha che impeti, è impastato di errori. E’ mio padre che mi salva. L’impeto mi serve per liberarmi velocemente degli errori, e farmi rimanere creatore veneto, veramente. (…)”.


E proprio quel carattere romagnolo, quell’impeto indomito e un poco anarchico, intessuto di poesia, che scorre in parte nelle vene di Martini, ci riporta alla memoria un altro grande poeta che dalle vallate del fiume Lamone irrompeva in quegli anni sulla scena della cultura italiana, Dino Campana. E alla poesia stralunata e geniale di Dino pare guardare Arturo Martini in alcune opere di quegli anni presentate in mostra, come se nei temi e nelle figure retoriche degli eroi e delle puttane cercasse l’humus e gli ideali della sua poetica per quelle sue prime creazioni, tra le quali ricordiamo appunto La fanciulla piena d’amore (1913) e l’ Icaro (1910-11) ancora intessuti di spiriti secessionisti fino a La lussuriosa (1918), dove riprenderà come già nel ’14 il tema della meretrice di la puttana, dove il tema letterario della donna perduta caro a certa letteratura di quegli anni è ripreso in sintonia con gli artisti del gruppo di Cà Pesaro a Venezia e da Mario Sironi già attivo a Milano, come in La venere dei porti.


Ma il tema serve a spalancare le porte ad altre figure mitologiche o letterarie, cariche di passione popolare e tra queste come non menzionare opere come La pulzella di Orleans (1920), con il giovane artista impegnato, con un’intonazione primitivista e quattrocentesca, a rendere onore alla figura eroica della pasionaria francese, assurta a paladina della Francia e della Chiesa intera, imponendo già a quest’opera giovanile la negazione della retorica monumentale, vuoi per le dimensioni (26 cm), vuoi per la posa della Santa, eretta sul cavallo abbracciata alla base della testa dell’animale con un atteggiamento più da amazzone impettita che da “santa vergine”.


Opera impegnativa è poi La Pisana, se pur nel frammento e nella sua versione iniziale in terracotta, che già anticipa per sensibilità classica la forza delle grandi sculture realizzate negli anni trenta, proprio in continuità con un sentire che progressivamente si avvicinerà al classico e alla scultura etrusca. La Pisana è anch’essa eroina, ma in questo caso letteraria, uscita dalla libera interpretazione della protagonista femminile di Racconti di un Italiano, di Ippolito Nievo. Figura classica questa, nella forma, ma realistica nell’impatto, con una forza anch’essa tutta popolare e romantica espressa grazie alla carica sensuale del nudo dormiente.


Donne del mito e della realtà, così come le figure domestiche che si fanno largo in gesti semplici, in atti comuni, come in Donna alla finestra, splendida e poetica soprattutto nell’idea di figura aggittante che si appoggia sullo stipite della finestra mostrando il volto, mentre la rotondità dell’accenno architettonico suggerisce, anzi obbliga, lo spettatore a ruotare attorno alla scultura mentre la figura intera si spiega di spalle; appare così non più una scultura statica ma quasi una sequenza cinematografica.


Ci sono poi, Maternità e Donna sdraiata, La Nena tutte in terracotta, belle e rigorose nella sintesi formale e per concludere altre figure del mito : la Leda con il cigno nella versione in pietra del ’26 e la testa di Medusa in legno, con gli occhi già cristallizzati nel suo riflesso.
Alessandro Lamotta


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