Marco Pantani, l’emozione nitida dello specchio deformato
A dieci anni dalla morte di Marco Pantani la cosa più nitida che resta è l’emozione di quel momento. E’ il momento quando il Pirata si toglieva la bandana. Come un segnale in codice, come un lessico che riscriveva l’attimo più significativo della corsa, spostandolo indietro, dal traguardo a qualche chilometro più giù, dove la collina diventava montagna e senza tattiche precise, con quella sfrontatezza che rendeva elementare il momento più complesso della gara, Marco Pantani senza aprire bocca diceva a tutti gli altri: venite a prendermi se siete capaci. Il resto, tutto il resto, è lo specchio deformante del suo maledetto sport, fatto di sudore e fatica che ti mostra le vittorie più meravigliose, le imprese epocali, come immagini contorte e senza distinzione tra l’infamia e la gloria. Non è poi solo una questione di ciclismo perché di fronte a ogni impresa la prima reazione, quella istintiva che arriva un secondo dopo il traguardo, è sempre quella: sarà dopato o no? A volte la risposta arriva alla velocità della luce, in poco più di nove secondi come nel caso di Tyson Gay e Asafa Powel, i velocisti trovati positivi al doping nell’estate scorsa. Il discorso per Marco Pantani è però diverso perché nelle centinaia di controlli non fu mai trovato positivo al doping e quel giorno a Madonna di Campiglio fu cacciato non per una positività ma precipitò nel fango per un ematocrito che ballava sul limite dei 50, quando molti altri invece la fecero franca tornando in sella con un 49,9. Il punto poi non è nemmeno quello perchè la commissione parlamentare francese il 18 luglio scorso, proprio il giorno del tappone dell’Alpe d’Huez, ha rivelato i nomi dei dopati di quindici anni prima, quelli del Tour del 1998 vinto da Marco Pantani. La rivelazione che arriva da quelle provette rimaste in attesa per anni di diventare prove, è che nel 1998 praticamente tutti facevano uso di Epo. Tutti compreso Pantani. Il dossier non ha aggiunto nulla al risaputo, una banalità parlamentare che al limite ha certificato le mille confessioni di questi anni e che non cambia di una virgola il succo: nel 1998 Pantani si ritrovò sul podio della Grande Boucle, Ullrich e Julich, come a dire due rei confessi. La sua vittoria non fa una grinza, dopato tra i dopati, Marco resta il più grande. Era dopato Marco, era dopato il secondo, era dopato il terzo, era dopato tutto quel mondo. Del resto in quel periodo, la pensata della federazione internazionale, fu di arginare il problema del doping fissando il tetto dell’ematocrito a 50. Per i ciclisti con valori attorno ai 42-44, era come un’istigazione a delinquere, come un’autorizzazione al rabbocco con Epo sino al limite consentito. Il dossier non ha riscritto la classifica, la situazione è diversa rispetto a Lance Armstrong, cancellato dai suoi sette Tour vinti. Quelle pagine di zelo francese ribadiscono semplicemente che il ciclismo non ammetteva deroghe: il doping era il prezzo da pagare per pedalare a certi livelli. Il Tour del 1998, anche il Tour del 1998, andava a Epo e il Pirata, il fuoriclasse delle due ruote di quegli anni, lo sapeva benissimo. Resta l’unicità delle sue imprese che dopo la sua morte l’hanno reso un mito. Non una vittima, il perseguitato di sinistre e perfide congiure come mamma Tonina, con un atteggiamento umanamente comprensibile, sostiene allo stremo di se stessa. Non un eroe positivo, piuttosto un simbolo della grandezza e della fragilità sportiva e umana. La bassezza oggi è la discussione sull’etica sportiva, la domanda se quella di Pantani fu vera gloria, come a circoscrivere, a contenere la finzione di questo mondo. La cosa ingiusta è far diventare il volto di Pantani l’ambigua immagine dello specchio deformante. Il dossier francese è una luce trasversale che si giustifica con il compito di illuminare il passato per evitare che le colpe si ripetano domani. Tranquilli, la magia al traguardo senza quell’inevitabile domanda, quell’emozione che Marco Pantani ci ha regalato sull’Alpe d’Huez, sul Galibert, sul Mortirolo e su tutte le altre montagne dell’Olimpo, non è ripetibile.
Francesco Pancari