Quando è in visita ai detenuti del carcere di Piacenza, don Adamo Affri risponde sbrigativamente che è “dentro”. Gli chiediamo: cosa succede dentro?
“Dentro di me o dentro il carcere?”.
Cominciamo da cosa succede in carcere.
“Quando sono partito avevo mille paure, non sapevo bene cosa fare. Poi ho scoperto che le persone mi chiedono di esprimere ciò che sono, un sacerdote. Quindi quando sono in carcere celebro la Messa, tengo incontri di catechesi, incontro le persone a tu per tu. Mi cercano, mi vogliono incontrare. Quindi più sto dentro, più mi trovo occupato. Non ci sono solo i detenuti, ma anche le guardie. Prendiamo un caffè insieme, scambiamo qualche parola, a volte mi invitano nelle loro famiglie. Mi sono guadagnato la loro fiducia. È come se fossi parroco di un villaggio”.
E dentro di lei cosa è successo?
“Dentro di me sono cambiate tante cose. All’inizio pensavo di non essere all’altezza. Mi ponevo molte domande: cosa posso portare io a loro? come posso essere credibile ai loro occhi, io che entro ma poi esco? Poi ho scoperto che loro desiderano semplicemente che ci sia qualcuno che condivide la vita. Se prima avvertivo paura e smarrimento di fronte a quei corridoi, di fronte ai cancelli, ai forti rumori metallici, adesso quel luogo mi è diventato famigliare. Dentro il carcere trovi tante persone diverse, per lingua, cultura, religione, però scopri che in tutti c’è lo stesso anelito, la stessa ricerca di un significato per la vita. Nel partecipare al loro cambiamento, alle loro speranze, anche io mi sono ritrovato cambiato, partecipe di un cammino di liberazione. Loro si atteggiano nei miei confronti in modo molto libero, non hanno da nascondere nulla, hanno perso tutto. Anche io mi sento provocato a gettare via le mie maschere e trovo molta libertà, molta pace, molta serenità”.
Don Adamo oltre che cappellano nel carcere di Piacenza, è anche il responsabile a Rimini della Comunità Papa Giovanni XXIII. La settimana la trascorre fra visite in carcere e incontri a Rimini. Don Adamo sarà uno dei relatori al primo incontro del ciclo che il centro culturale Il Portico del Vasaio dedica a “Le parole che dividono”. L’altro è don Carlo d’Imporzano, della Fondazione Monserrate, da anni in Cina per sviluppare rapporti di cooperazione internazionale. Il primo appuntamento è per martedì 5 febbraio alle 21,15 al Teatro degli Atti sul tema “Identità. Nel dialogo, chi siamo”.
Don Adamo, lei cosa ha scoperto nel dialogo con i detenuti che incontra nel carcere di Piacenza?
“Ho scoperto tante cose belle che nemmeno pensavo. Ho scoperto il senso dell’appartenenza, che tutti ci apparteniamo, perché in tutti noi c’è la stessa sorgente, lo stesso desiderio di essere umani. I detenuti mi coinvolgono nelle loro vicende; tuttavia, nel rapporto con loro, i reati, anche quelli più gravi, passano immediatamente sullo sfondo. Davvero l’uomo è più del suo errore”.
Accennava prima che in carcere si incontra tanta diversità…
“Sì, anche perché i detenuti sono soprattutto stranieri. Molti sono musulmani, ci sono diversi ortodossi, rumeni, e ci sono gli albanesi, che sono niente e sono tutto. Arrivano con il loro bagaglio e sono aperti a tutto. Nel rapporto con i musulmani c’è la consapevolezza che le differenze sono originalità. Per cui non c’è competizione ma rispetto per l’altro. Quando qualche detenuto fa la spesa e mi passa dei viveri da donare ai poveri, non mi dicono di darli a quelli della loro etnia o religione. Mi chiedono semplicemente di darli a chi ha bisogno”.
Noi che siamo fuori, istintivamente abbiamo paura e diffidenza di chi sta dentro. Cosa permette di superare la paura?
“E’ l’incontro. L’incontro abbatte tutti gli ostacoli, ha una forza incredibile. Capita a volte che arrivino gli autori di reati gravissimi, che istintivamente non avrei voglia di incontrare. Ma quando faccio il passo di andare da loro, crollano tutte le paure”.
L’incontro con l’altro aiuta a scoprire la propria identità?
“Sì, certo, e questo avviene in un cammino. Questo lo vedo molto nella mia esperienza. Scopro di me aspetti nuovi, anche limiti, non solo risorse. Così come vedo che quando l’altro è guardato in un certo modo, quando si accorge che è considerato come persona e non identificato con i suoi reati, scopre anche lui la sua umanità. I detenuti tendono a identificarsi con la loro storia, che rifiutano. Il cambiamento avviene quando scoprono che anch’essi sono amabili. Quando li incontro non chiedo cosa hanno fatto o di che religione sono. In loro incontro Gesù, Gesù che si è incarnato nella nostra umanità”.
Come è avvenuto l’incontro con la Comunità Papa Giovanni XXIII?
“Ero un giovane alla ricerca di qualcosa per cui valesse la pena vivere. L’incontro con un fratello della comunità mi ha portato a vivere in una casa famiglia. Dovevo starci sei mesi, invece sono passati diciotto anni e sono ancora nella casa famiglia Vivendo lì, ho scoperto la mia vocazione, per cui all’età di quarant’anni sono diventato prete. Quest’anno è il decimo anniversario della mia ordinazione. Nella condivisione dei poveri, ho scoperto la mia identità, cosa ero chiamato ad essere nel mondo”.
Come può accadere?
“Si tratta non solo di vivere per i poveri, ma di farsi povero. Papa Francesco dice di volere non solo una Chiesa per i poveri ma una Chiesa povera. Se anche tu non diventi povero, non capisci chi sei”.
Che significa diventare povero?
“Significa riconoscere che solo dal Signore può venire la salvezza. Significa riconoscere di essere fragili, deboli, bisognosi di essere salvati. Questa salvezza avviene in un noi, nella Chiesa, nella comunità. Fuori da questo noi, non posso essere davvero me stesso. Quindi essere poveri significa lasciarsi guidare dallo Spirito Santo nel rapporto con il Signore e con la Chiesa. È un cammino stupendo, perché il Signore ha molta fantasia”.
Valerio Lessi