Sabato scorso Giovanni Paolo Ramonda, 60 anni, è stato eletto per la terza volta responsabile della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi.
Perché ha scelto di continuare questo impegno, che certamente non è semplice?
Da tempo avevo precisato, insieme a mia moglie Tiziana, con cui abbiamo una bella casa famiglia con tanti figliuoli diversamente abili che ci impegna molto, che sarei stato felicissimo se fosse stato indicato un nuovo responsabile. Nello stesso tempo ho sempre detto che se la comunità avesse chiesto di continuare, non avrei detto di no, salvo motivi gravi. Dal nostro fondatore ho capito che in questa vita ci dobbiamo donare, spendere per gli altri. Non possiamo dire no alle chiamate di Dio che ci arrivano attraverso la Chiesa, la comunità. Ho detto di sì, tirando avanti come un asino, perché conosco bene i miei limiti. Mentre don Benzi era un cavallo di razza, adesso è il momento dei somari, i quali comunque a volte riescono ad andare in posti impervi.
Cosa è successo di importante in questi 13 anni di guida della comunità?
C’è stato uno sviluppo enorme. Ho studiato cosa è successo a ordini e movimenti nella storia dopo la morte dei fondatori: sempre il carisma è esploso. Oltretutto, nella fede, sappiamo che il fondatore è con il Signore e quindi aiuta i suoi figli. Per noi è stata una stagione straordinaria. Abbiamo aperto in dieci paesi dell’Europa del nord dove prima non eravamo presenti, siamo andati in nuovi paesi asiatici, come la Thailandia; nuove aperture anche in America Latina, come a Cuba. Siamo andati nel mondo islamico, in Iraq; adesso ci ha chiamati il cardinale Romero di Rabat per iniziare una presenza in Marocco. In Africa, abbiamo aperto in Camerun, Rwanda, Sierra Leone, Burundi. Giorni fa papa Francesco, quando ha saputo della chiesa di Santa Sofia a Istanbul trasformata in moschea, ha detto di essere molto addolorato. Io ho twittato dicendo che anche noi siamo addolorati però continuiamo ad accogliere i poveri anche in quei paesi islamici dove a volte ci vorrebbero mandare via. Questo è il vangelo di Gesù Cristo.
Andate anche nei paesi occidentali, più ricchi, perché pensate che anche lì ci siano povertà da condividere?
Alla grande. Nel 2020 siamo arrivati in Svezia e in Irlanda. Siamo arrivati in Irlanda poco dopo l’approvazione della legge sull’aborto. Una delle motivazioni della legge è non far più nascere bambini down, perché abbassano il Pil. Noi siamo andati con una famiglia che ha due bambini down e un altro disabile. Non andiamo per essere contro, ma per portare una testimonianza. Il vescovo che ci ha accolto nella sua diocesi ha detto che per lui il nostro arrivo è stata una luce meravigliosa. “Il nostro paese sta morendo e voi siete come un germoglio di speranza”.
Cosa significa aderire alla vostra comunità? Voi la chiamate vocazione, quindi non è per tutti? Bisogna che una persona scopra di essere chiamata a quella vita?
Un altro giornale ha osservato che noi non siamo tantissimi, poco più di duemila, rispetto ad altri movimenti. Ho risposto che la nostra proposta è molto esigente, nel senso che mettere la vita con i più poveri, con i disabili, con gli anziani allettati, è certamente una vocazione. Però non ritengo che sia per una élite, piuttosto è per chi desidera di volersi donare con la propria vita, con la propria famiglia, con la propria professione. Abbiamo chi lavora nelle cooperative sociali e quindi sono impegnati a dare lavoro, anche a persone svantaggiate che erano un costo sociale e che lavorando non solo contribuiscono al bene della società ma diventano una risorsa. Nel poliambulatorio La Filigrana, a Rimini, dove si paga solo se si può, abbiamo aggiunto il nuovo ambulatorio di ginecologia per i poveri. Laddove c’è la gratuità, che non vuol dire gratis ma che ti doni oltre il dovuto, i giovani sono attratti.
Nel vostro bilancio sociale si scopre che solo il 54 per cento delle persone accolte riceve una retta dalle istituzioni. E per gli altri come fate?
Sono diventato responsabile nel 2008 quando è cominciata la crisi economica. Finché c’era il fondatore, ci sono state le vacche grasse, e meno male; quando è arrivato questo povero somaro sono arrivate le vacche magre. Anche in questi anni, lavorando sodo, ce l’abbiamo fatta. Apro una parentesi: girando il mondo mi sono accorto che in Italia abbiamo uno Stato sociale che è invidiabile. Ma noi accogliamo anche in quei paesi dove non ci sono rette pagate dalle istituzioni pubbliche. Come facciamo? Con il fundraising, con il contributo delle persone della comunità che lavorano, con la Provvidenza. Devo dire che a volte il bilancio chiude in pareggio, altre volte in rosso. In media ogni anno apriamo dieci nuove realtà di vita in tutto il mondo, e quindi…
Che peso ha nella vostra vita il magistero e la testimonianza di papa Francesco?
Noi siamo innamorati del successore di Pietro, chiunque esso sia. La garanzia del cammino è data da Cristo, che è la roccia, e dalla Chiesa che continua nel tempo con il papa e i vescovi. Certo che ascoltando papa Francesco a volte sembra di riascoltare don Oreste. E non si sono mai conosciuti, mai incontrati. Per scherzo mi verrebbe da dire: dai, Francesco, diventa membro della comunità! Cristo vivo presente nei povero e nell’uomo sofferente: questa è la nostra vocazione. Ma anche i continui richiami alla preghiera, alla contemplazione, alla dimensione comunitaria, alla Chiesa che deve essere povera, voce di chi non ha voce, ci sono connaturali.
Cosa significa per voi la prossima beatificazione di Sandra Sabattini?
Speriamo di farla entro la prossima primavera, a Dio piacendo. Francesco l’ha scelta come una dei santi della porta accanto. È un esempio meraviglioso per i giovani d’oggi, al di là che sia della Papa Giovanni. Basta guardare il suo volto, ha incarnato quello che diceva don Oreste: un incontro simpatico con Cristo. Seguire Cristo è la pienezza della vita.
Ai suoi amici della comunità ha consigliato un quarto d’ora al giorno di adorazione eucaristica. Perché?
Quando la fatica diventa forte, pensiamo a questo tempo di Covid, tu ti devi sentire amato, pensato da Qualcuno. Ho detto un quarto d’ora, perché comunque noi siamo laici nel mondo, non siamo monaci. Su questa piccola fedeltà quotidiana Dio può costruire meraviglie.
A proposito di Covid, cosa ha cambiato nella vita della vostra comunità?
Abbiamo subito cercato di rispondere, mettendo a disposizione il nostro albergo di Cattolica per accogliere i malati di Covid. Stiamo accogliendo tante persone malate. Un vescovo mi ha scritto un bigliettino bellissimo: ringrazio la comunità perché un mio sacerdote stava morendo di Covid, ho faticato a trovare qualcuno che lo accogliesse sfinito e depresso all’uscita dell’ospedale e voi me lo avete accolto. È andato in una comunità del Piemonte per il recupero dei carcerati. Il responsabile è uno che è stato in carcere quindici anni, quando ha saputo di questa richiesta ha detto: gli lascio la mia camera in mansarda e io vado a dormire con i miei ragazzi. Penso che noi ci dobbiamo sempre lasciare interpellare dalle povertà vive, non fare i convegni sulle povertà. Noi non siamo fatti per i convegni, don Oreste ha sempre detto che è la vita con i poveri che ci salva.
Valerio Lessi