Se il centrosinistra è nel bel mezzo di un difficile rituale che trasformi l’assemblea dei ‘nemici’ di Renata Tosi in una coalizione politica, il centrodestra ha un problema di uguale natura (anche se opposto nelle aspettative elettorali): quello cioè di convertire la vittoria e i mandati amministrativi che per adesso coincidono - nel bene e nel male - con la persona di Renata Tosi in una vittoria e in una amministrazione da intestare al centrodestra.

E se a sinistra è già in corso una trattativa che mira a includere e accontentare chiunque e convertire i risentimenti in politica, anche a destra la necessità è quella di riportare la disfida attuale tra Renata Tosi e i suoi alleati alle ‘ragioni’ e alle regole della politica.

Renata Tosi per prima potrebbe mettere sul piatto il peso del proprio brand in termini di voti e decidere come giocarselo, convertendo quello che può essere solo un ‘capriccio’ (absit etc.) in semplice e banale ma efficace prassi politica. Potrebbe mantenersi civica o invece ‘conquistare’ anche ufficialmente la Lega, ambire a un ruolo di coordinamento o anche a una candidatura parlamentare che certo non è lontana nel tempo. Anche perché, arrivati a questo punto (che sia per ‘carattere’ o già per calcolo), un suo passo indietro avrebbe un peso che esorbita il numero stesso di voti cui corrisponde; avrebbe infatti il valore di uno spazio politico che si apre e che altrimenti non si aprirebbe. E come il Pd se lo farà pagare a sinistra, così Renata Tosi può farselo pagare a destra.

Anche perché, dopo la sconfitta di Rimini, il centrodestra provinciale ha bisogno di Riccione, ha bisogno di giocare una partita vera e di vincere.

Una volta si chiamavano ‘laboratori’. Riccione potrebbe diventare, finita l’era della fondatrice e titolare indiscussa del nuovo corso, l’esempio di una città simbolo che possa distinguersi nella gestione amministrativa dal vicino e inespugnabile capoluogo riminese. Come ripetiamo da queste colonne ormai da sempre, se infatti il centrodestra non dimostrerà di avere una classe dirigente capace di comprendere e affrontare la complessità della cosa pubblica, anche dal punto di vista caratteriale, non potrà mai (e giustamente) strappare Rimini alla sinistra. E dunque un’esperienza di governo a Riccione che sappia uscire dall’eccezionalità e diventare sistema, (come si potrebbe dire di Bellaria dopo due mandati di Giorgetti) avrebbe un valore esemplificativo particolarmente alto.

Dal punto di vista della cronaca sarebbe poi interessante vedere come, dopo un eventuale passo indietro del sindaco attuale, si comporterebbero Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, con i primi due che anche a livello locale ormai non si parlano più. Anche su questo Renata Tosi potrebbe avere buon gioco indicando lei stessa un candidato, in modo che nessuno esca sconfitto dalla contrapposizione.

Se invece il passo indietro non ci sarà, con una Lega che continui a tacere e acconsentire, è difficile prevedere come si muoveranno gli altri due partiti di centrodestra. Anche perché, oltre ai malumori nazionali post Quirinale, nei rapporti locali pesano i risentimenti per il doppio sgarbo patito da FdI e FI nelle ultime elezioni provinciali proprio da parte di Renata Tosi. È chiaro però che chiunque decidesse di arrivare a una rottura approntando una lista alternativa porterebbe la responsabilità diretta di una eventuale sconfitta del centrodestra al primo turno.

Per adesso le parti non si parlano, girano solo messaggi, blandizie e i soliti giochi di sponda. Ed è difficile pensare, visti i rapporti tra Salvini e Meloni, a un tavolo nazionale che in qualche modo dirima la questione. Magari, prima o poi, qualcuno aprirà una trattativa politica anche a destra. Dicono che i leader si riconoscano anche da questo.

(rg)

Dal momento in cui il segretario provinciale del Pd, Filippo Sacchetti, ha annunciato l’intenzione del suo partito di promuovere una lista civica aperta a tutte “le forze del centro sinistra, il civismo, gli imprenditori, i partiti e i movimenti e tutti coloro che hanno l'ambizione di proiettare Riccione in un futuro nuovamente luminoso”, in città si è cominciato a discutere su quali siano le reali intenzioni del Partito Democratico; se si tratti di vera apertura e vera disponibilità a cedere potere alle forze civiche della coalizione (e dunque decisioni, come la scelta del candidato sindaco) o invece solo di una ‘carota’ tattica per invogliare tutti gli antagonisti di Renata Tosi a riunirsi.

La domanda è legittima, e l’abitudine egemonica del Pd la giustifica ampiamente, ma rischia di sminuire l’impatto politico dell’annuncio.

È evidente infatti che quella del Pd è una narrazione della città che vuole prima di tutto creare uno spazio politico aperto a tutti gli scontenti della gestione di Renata Tosi; che mira cioè a raccogliere e trasformare il livore dei tanti che si sentono traditi, la delusione di quelli che nutrivano aspettative diverse per la propria dedizione, la stessa antipatia e rabbia che molti provano per i suoi atteggiamenti, lo sdegno per le sue intromissioni e anche il timore di chi si è visto finire nella lunga lista dei ‘cattivi’, in un fatto non più solo personale, ma in un qualcosa che ha valore politico.

Non solo; da questo punto di vista il tipo di coalizione prefigurato dal Pd col suo annuncio serve a tutti quanti si sono già organizzati in una lista o in una associazione perché offre un valore e certo una ‘ricompensa’ al contributo anche dell’aggregazione più piccola che pur porti pochi voti.

Se dunque l’invito del Pd mira a dare un valore civile e a rendere politica qualsiasi motivazione abbia un cittadino, un’associazione di categoria o sportiva, un condominio o un quartiere per ‘dar contro’ la Tosi, è evidente che non si tratta di una rinucia a fare politica, di un farsi da parte unilaterale, ma di mettere a disposizione un campo da gioco che nessun altro tra gli oppositori potrebbe offrire.

In buona sostanza, anche se questo può far storcere il naso nelle discussioni sulla sincerità di cui sopra, la trattativa è aperta, e anche le ultime mosse di alcuni dei potenziali partecipanti alla grossa coalizione sembrano dimostrarlo.

Ad esempio, difficile pensare che il tentativo di Tirincanti di una trattativa diretta col Pd fosse qualcosa di più di un ‘farsi notare’; e infatti, già dimenticate le reazioni indispettite al suo gesto, con la coppia Baleani e Tirincanti si è subito ripristinato un dialogo e i due sono pronti a formalizzare il loro rientro in coalizione per la loro ‘riconosciuta importanza’, certamente più simbolica (uno spostamento della coalizione verso il centro) che per il numero di voti.

Invece, all’ultima riunione, e pur in modo diverso, è stata Italia Viva a fare la preziosa, chiedendo tempo per una riflessione interna (e, di nuovo, un riconoscimento della propria importanza).

Il fatto è che il Pd ha il proprio candidato, ce l’ha il movimento 5stelle, ce l’ha Azione e ce ne sono sul piatto almeno altri due e quindi questo è il momento – prima cioè che si decida chi sarà tra questi a sfidare il centro destra – in cui tutti sono importanti e possono ambire a qualcosa.

Forse allora la domanda non è se il Pd sia sincero, ma chi abbia la capacità di gestire e garantire il traffico delle trattative. Dalle bizze, dalle porte sbattute, dalle riunioni abbandonate, dallo sdegno che monta, dalla frustrazione che aumenta, sembra effettivamente che le buone intenzioni e la cortesia servano a poco. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che è impossibile gestire in modo assembleare la formazione della coalizione: tutti i promotori al ‘tavolo’, piccoli e piccolissimi, gli indecisi, i boriosi, i furbi, gli inesperti, quelli che sono già stufi, … La verità è che al momento manca un regista.

In fondo è lo stesso schema di Rimini, ma a Rimini il regista c’era.

(rg)

Anche se la pandemia sembra avviata al termine, o almeno a una sorta di convivenza ‘vigile’col covid e con le sue varianti, la frattura sociale che si è creata in questo lungo periodo di emergenza non sembra ricomporsi e anche all’interno della propria famiglia i più continuano a fare esperienza di una dolorosa contrapposizione su vaccini e scelte di politica sanitaria.

Proprio il fatto che il conflitto raggiunga la nostra ‘intimità’ e il cerchio più stretto delle nostre relazioni ci sfida e ci costringe a non considerarlo appena uno scontro di opinioni nel quale una cerchi di prevalere sull’altra; e come si è accorto anche il più convinto delle proprie certezze, il dolore della frattura affettiva che si sta sperimentando - con la sorella, il padre o il figlio - non si riesce a cancellare o a compensare solo pensando di essere nel giusto.

Non è la prima volta, nella nostra storia recente, che le divisioni e le differenze di opinione diventano vere e proprie lacerazioni sociali.

Il venir meno delle ‘grandi’ certezze e di riferimenti sicuri sembra infatti costringere ognuno a una specie di solitudine sociale incolmabile, che confina i pensieri e le decisioni in una ‘istintività’ reattiva, spesso impaurita o anche risentita: perché si diffida di chiunque e soprattutto di chi pretenda di detenere ‘la ragione’ o la verità stessa.

Eppure, anche sotto l’orgoglio che accompagna questa identità fieramente individualistica, che quasi si vanta di essere slegata da ogni vincolo o legame, si intuisce – più o meno cosciente – la ricerca di qualcosa che vada oltre la necessità del momento, qualcosa che faccia sentire importanti, vivi, con una dignità propria e in qualche modo credibili ai propri stessi occhi.

È evidente che anche solo guardare l’altro che abbiamo di fronte, e con il quale magari non siamo d’accordo su niente, sapendo di condividere questa ricerca e questo desiderio, ci costringe allo stesso affetto umano che proviamo naturalmente per i nostri cari e a domandarci su cosa ‘s’appoggi’ la nostra speranza.

L’unica cosa che allora ci si può augurare è che questa ricerca sia sempre il più possibile leale e metta in gioco il ‘fondo’ della vita (non appena un interesse o un piacere, sempre indotti dalla macchina del consumo). E magari di trovare qualcuno con cui condividere e accompagnarsi in questo percorso. Per non disperare, per non essere soli.

(rg)

Martedì, 04 Gennaio 2022 19:53

Gambini: la sfida del virus al nostro turismo

L’andamento incerto di queste settimane del nostro turismo, che si affianca a quello molto negativo su scala nazionale, credo imponga di compiere una riflessione cruda e spassionata per mettere mano ad una situazione che, se non viene affrontata rapidamente, è destinata a portare guai alla nostra economia ed alla società riminese.
Non è sufficiente dire che le disdette o le mancate presenze sono la conseguenza dell’emergenza covid. È una constatazione che in sé non dice nulla. Spesso rivendichiamo al turismo il primato per quota del PIL nazionale, ma di fronte a questi risultati nessuno è stato capace di fare una seria indagine di mercato per individuarne le cause, come invece avrebbe fatto qualsiasi imprenditore di un altro settore.

Di cause indubbiamente ce ne sono diverse, ma ce n’è una che io ritengo decisiva perché su di essa, a differenza di altre, è possibile intervenire su scala locale. Mi riferisco alla percezione che una quota sempre più larga di consumatori del prodotto turistico non è disponibile a muoversi da casa se non ha la certezza che il luogo nel quale si reca per la vacanza sia sicuro per la propria salute.
Ormai lo sappiamo la situazione non è destinata a tornare, in qualche mese, quella precedente all’inizio della pandemia. Ci sarà ancora un lungo periodo nel quale, tra alti e bassi dovuti alla stagione, dovremo imparare a convivere con questo maledetto virus. Gli scienziati ce lo hanno spiegato in ogni modo.
Piano piano ciascuno di noi, almeno nel nostro continente, si sta abituando a questo sgradito scenario. Dominerà le nostre esistenze per qualche anno e in conseguenza di ciò si sta ridefinendo il carattere e l’orizzonte di molti nostri consumi.

Chi, come noi, ha costruito il benessere ed il successo economico della propria comunità sull’offerta di servizi turistici, se non vuole soccombere, deve adeguare in fretta il proprio prodotto a questo sconvolgente assetto di mercato. Deve individuare con chiarezza quali sono le nuove richieste e realizzare azioni coerenti e mirate di prodotto, di marketing, di comunicazione per competere adeguatamente. Non si tratta di trasformare le nostre città in corsie di ospedale, ma di adeguarsi a nuovi standard che sono ormai largamente sperimentati e fanno parte della vita quotidiana di milioni di persone. C’è riuscita la Formula 1, possiamo riuscirci anche noi.
Ridefinire la cifra dell’accoglienza del nostro territorio non è cosa che possa essere fatta dalla singola impresa, richiede invece un intervento di sistema che coinvolga una larghissima platea di protagonisti per ottenere che tutti remino nella stessa direzione. Occorrerà un grande lavoro di concertazione e di convincimento diffuso per affermarla, per evitare che le lacerazioni che si avvertono nella società riminese nell’affrontare la pandemia divengano una zavorra insostenibile per il nostro turismo.

Le molte declinazioni di prodotto turistico che per decenni hanno felicemente convissuto sulla riviera, avevano un tratto comune rappresentato dalla peculiare ospitalità del nostro sistema. Un’ospitalità costituita da diversi elementi, materiali ed immateriali, difficilmente riproducibili altrove, che hanno rappresentato per decenni il fattore competitivo più forte dell’offerta. Ad essi oggi è indispensabile aggiungere quello della certezza che qui la salute degli ospiti sarà il bene maggiormente tutelato.
Non si tratta solo di garantire che le regole stabilite su scala nazionale vengano puntualmente rispettate, ma di promuovere buone pratiche che consentano di dare evidenza e valore al loro rispetto diffuso e puntuale, di implementarlo, di nutrirlo con idee nuove, di premiare la convivenza tra divertimento e tutela della salute, di qualificare e potenziare i servizi sanitari e di igiene pubblica.

L’elenco di ciò che si potrebbe fare è lungo. Va dalla opportunità per gli ospiti della nostra riviera di farsi un tampone a costi accessibili e senza file chilometriche, alla sicurezza sui trasporti pubblici, dalla distribuzione gratuita di mascherine e di disinfettanti, alla trasparenza del livello di prevenzione del contagio offerto da ciascun servizio.
Le scelte ovviamente devono partire dal vertice perché comportano anche impegno e destinazione di risorse pubbliche, ma non funzioneranno mai se non ci sarà un coinvolgimento dell’intera comunità locale.
Non trovo altra maniera per dirlo, ma, se vogliamo sperare di avere successo, dobbiamo aprire un fronte interno che veicoli una banale verità: chi non rispetta le regole anticovid e i protocolli che verranno decisi in sede locale, chi le aggira, chi le elude, finisce per scoraggiare i flussi turistici, colpisce inconsapevolmente il nostro benessere, il nostro lavoro, la nostra economia.

Non c’è più spazio per furbizie. Nel mondo plasmato dai social, puoi anche raccontare che nella tua discoteca tutte le regole vengono rispettate, ci pensano le immagini di Instagram postate dai clienti a smentirti. Puoi garantire la sanificazione delle camere, ma se chi le riordina non è vaccinato e non indossa correttamente mascherina e guanti è come se non avessi fatto niente. Se chi viene a servire al tavolo non porta la mascherina, se non viene rigorosamente richiesta l’esibizione del green pass, il tuo cliente è legittimato pensare che nel back stage del locale può succedere di tutto e lo scriverà nella recensione.
I controlli in questa prospettiva diventano decisivi. Fino ad ora è stato fatto tutto quanto era possibile? Una verifica è più che opportuna, per fugare l’idea di un compiacente lassismo.

Tuttavia, ritengo che sarebbe altrettanto efficace la valorizzazione delle buone pratiche. Perché non lanciare, ad esempio, un bollino Riviera della Salute, certificato da garanti credibili, per alberghi, bar, ristoranti, locali che primeggiano nelle garanzie offerte alla salute dei nostri ospiti e dei consumatori? Immaginate quale riscontro avrebbe una notizia come questa in tutto il paese. Si può fare, se non si ha timore di inimicarsi qualche associato che guarda al passato.
Tra gli strumenti per spingere le imprese dell’accoglienza verso comportamenti virtuosi, infine, c’è un indirizzo che dipende da come si risponde ad una domanda.
E’ giusto che gli imprenditori beccati ad infrangere le regole anti covid, quelli che con i loro comportamenti squalificano la nostra offerta, godano dei ristori economici e dei benefici, per quanto miseri, che saranno varati dal governo nazionale o a livello locale?

Sergio Gambini
Ex parlamentare

Domenica, 28 Novembre 2021 15:52

Sergio Zavoli in un ricordo di Rosita Copioli

Esce Il tempo di scordare, sesto libro di poesie di Sergio Zavoli (Rizzoli, prefazione di Walter Veltroni, profilo biografico di Giorgio Giovannetti), a distanza di un anno dalla sua morte, avvenuta nella notte tra il 4 e il 5 agosto 2020. Nel gennaio scorso, per Vita e pensiero, era uscito un suo altro libro: Prima dei fatti. Un diario in pubblico, la raccolta delle sue rubriche apparse sulla prima pagina di «Avvenire» negli ultimi mesi del 2015, con introduzione di Marco Tarquinio, prefazione di Gianfranco Ravasi e postfazione mia.

Vorrei aggiungere qualche nota dello stesso Zavoli, poco conosciuta, al suo ricordo. Tutti lo riconoscono come il più grande giornalista radio-televisivo italiano, ma non molti sanno che fino quasi all’ultimo, attraverso il ruolo di Presidente della Commissione per la Biblioteca del Senato (2013-2017), organizzò convegni di studio che idealmente continuavano le sue stesse inchieste sui temi più urgenti e profondi. Uno dei più insistenti riguardava l’educazione, una riforma della scuola.

In uno degli ultimi discorsi, pronunciato al Senato il 22 luglio 2015, in previsione della legge sulla riforma della Rai che sarebbe stata promulgata nel dicembre, non poteva disgiungere la corretta informazione dalla buona comunicazione e dalle loro forme educative. Pensava a quanto aveva fatto lui stesso, all’uscita dalla guerra, e temeva sia i toni populistici dei talk show, sia l’intrattenimento del dolorificio e della spettacolarizzazione del “male di vivere”, sia il moltiplicarsi di cuochi e volteggiar di padelle in tempi di crisi, che certo non aiutano a corroborare l’«energia volitiva» dei giovani. Quell’energia che sostiene la volontà di costruzione dei giovani, sta

«facendosi sempre più debole; e ciò accade da quando, con il massimo di imprevidenza, sono stati spossessati delle prime logiche dell’apprendimento, cioè dell’analisi, del giudizio e della scelta, facendone una realtà ininfluente dal punto di vista sociale e vincendo, su tutto, la realtà che appare, cioè la sua rappresentazione.

Un’altra riforma, quella della scuola, potrà far molto in proposito.

È ciò che rese clamorosa la rivoluzione culturale prodotta dalla televisione. Quanto ad oggi, andrà evitato il rischio di promuovere una diversa mitologia, quella di credere che la rivoluzione tecnologica sia il sinonimo di una rivoluzione dei rapporti sociali, considerando che la comunicazione è, dopotutto, una pratica sociale».

Per Zavoli, in qualunque forma si tratti di considerare il problema dell’informare, nel modo vero e giusto di comunicare l’informazione, si profila quello che riguarda l’educazione al pensare. Il pensiero “educato” viene prima di ogni altra necessità. Zavoli sapeva come sia profondamente connesso allo stare al mondo e al rispettarlo, al rapporto civile tra gli uomini, che invece rimbalza sempre in conflitto, come lo stesso rapporto con il mondo.

Dalle origini, credendo nell’immaginazione come nella forma più alta del pensare - lo amava ripetere seguendo Fellini – ha un estremo bisogno di ricorrervi. Si affida all’immaginazione, si fida di lei, per inventare qualunque soluzione, anche temeraria – temerario è per lui un concetto ricorrente – oppure, la fruga e l’accende, per rivedere qualunque rapporto umano da riannodare. La poesia, con le sue parole metamorfiche e sapienti, è la grande risorsa dell’immaginazione. È la scintilla primordiale che sta tra l’accensione del fuoco e la Divina Commedia: lo strumento nascosto che sostiene dal profondo ogni bisogno di nutrimento, fisico e psichico, spirituale, e del pensiero. Attraverso la poesia, Zavoli ne porterà dovunque il frutto sempre germogliante dell’immaginazione e della parola che lega gli esseri umani.

La vita di Sergio Zavoli è stata ricchissima, lunga e complessa, e attende di essere portata alla luce, sebbene ci sembri di conoscere tutto del personaggio pubblico, e dell’amico. Ci sono gli esordi del dopoguerra con l’invenzione del futuro Publiphono nella piazza di Rimini semidistrutta; la folgorante carriera a Roma con Vittorio Veltroni: prima con le radiocronache delle partite, poi con i reportage da ogni luogo o evento (Africa e Polesine, Budapest e Sinai e Romagna e Bologna...); i documentari radio, inusuali e di grande fascino, come lo straordinario Clausura del 1957: un successo planetario che fece epoca; il popolarissimo Processo alla tappa; il GR1; le inchieste più approfondite sui massimi temi d’attualità, insieme ai dialoghi con i protagonisti del tempo, da Fellini a Schweitzer a Von Braun: e i tanti, famosi libri conseguenti, tra cui Diario di un cronista (2002) si distingue come summa d’incontri e interessi; l’insuperabile Notte della Repubblica - diciotto puntate di quarantacinque ore, dal 12 dicembre 1989 all’11 aprile 1990, per «la più ampia e puntuale ricostruzione televisiva sull’Italia delle eversioni, delle stragi, della contestazione e del terrorismo»; la Presidenza della Rai; il Senato per passione politica e civile, e gli ultimi anni a presiederne la Commissione per la Biblioteca, dove fu instancabile suscitatore di cultura; l’amicizia con Fellini; i suoi 7 libri di poesia.

Zavoli possedeva una doppia natura, sempre devota all’immaginazione che si nutre di quel “normale” che vede nella realtà: del “cronista” per eccellenza, e del poeta: essi si alimentavano l’uno con l’altro. Zavoli è il più fedele cronista perché avvicina l’uomo. La sua voce pacata ne tocca le corde più profonde, ha il respiro del suo mare. La voce indimenticabile dell’autore del Processo alla tappa, di Notte della Repubblica è uno “spazio letterario”, secondo l’accezione di Maurice Blanchot: ciò che ne distingue la vera “durata”.

L’ultimo libro, Il tempo di scordare, possiede l’arcata di un inizio d’addio (al Casale di Monte Porzio Catone, con tutto quel che esso ha racchiuso e significato), che si riappoggia alla vita nuova nel «luogo mite, silenzioso, Trevignano», con la moglie Alessandra, alla quale la raccolta è dedicata. Il lago di «una pace naturale» ospita nello specchio dei suoi riflessi l’intera vita nella sua continuità. Non so se, come lui stesso mi diceva, lo stile sia diventato più cronachistico («per non venire meno a un bisogno di libertà ritmiche e lessicali»); penso sia più meditativo. Ancora lo accompagnano, come nei “mattutini” consegnati ad «Avvenire» - «alle spalle l’ombra mia» - le antiche ombre più grandi, diventate più miti, quasi si prolungassero, al modo di Virgilio, cessati i soffi del vento che mormora e dagli alti monti cadono le maggiori ombre:
«ventosi ceciderunt murmuris aurae»
[...]
«maioresque cadunt altis de montibus umbrae».

Rosita Copioli

 

"La voce di Sergio Zavoli" di Rosita Copioli è il ritratto umano e letterario scritto da una poetessa conterranea che gli fu amica. Tema: la doppia natura di grande giornalista, il “cronista” per eccellenza, che è poeta. La voce indimenticabile dell’autore del Processo alla tappa, di Notte della Repubblica è uno “spazio letterario”, secondo l’accezione di Maurice Blanchot. Il libro è edito da Vallecchi

Dopo gli articoli sul tema della rappresentanza (Un nuovo inizio e una domanda per la politica riminese) e sui compiti della minoranza (Il mestiere e il rischio dell’opposizione), parliamo di maggioranza e della responsabilità che essa si assume davanti alla città di Rimini.

Se il rischio che la minoranza è ‘costretta’ a correre è quello di rinunciare a un’identità costruita solo sulla protesta e di provare a dimostrare visione e capacità di governo partecipando alla soluzione dei problemi della città – rischio perché impone un rapporto delicato con gli amministratori in carica, oltre che un mettersi alla prova ben diverso dallo spuntare quattro righe per il giornale –, quello della maggioranza è assolutamente speculare ad esso. Si tratta infatti di rinunciare alla propria autosufficienza e, almeno in parte, alla propria posizione dominante, ad esempio in termini di trasparenza e di metodo nella conduzione dei diversi ‘cantieri’ cittadini.
Un rischio, a dire il vero, che le maggioranze fanno di tutto per risparmiarsi, preferendo l’avanzamento dei propri progetti e dei propri programmi a ogni contaminazione, aggiustamento o correzione suggeriti dall’esterno. Per non parlare di una qualsiasi ammissione su risultati negativi, mancanze o qualcosa che si sarebbe potuto fare meglio: come se gli amministratori pubblici fossero gli unici a non fare errori nel mondo. E così è stato anche a Rimini.

Ma il problema non si può ridurre a una questione di temperamento personale e ha motivazioni culturali e politiche profonde.
In buona sostanza la domanda cui si dovrebbe rispondere è come sia possibile essere davvero il sindaco di tutti. Se ciò significhi che le idee del primo cittadino di turno debbano riguardare tutti senza preferenze e, certo, essere applicate a tutti in modo onesto e ragionevole, e anche efficace e lungimirante, o se invece quegli stessi ‘tutti’ possano influenzarle, quelle idee, e addirittura trasformarle. Un’apertura di 'credito' e un metodo di governo la cui decisività non venga meno davanti a qualsiasi competenza, capacità, visione o aggettivo possa connotare positivamente l’azione amministrativa.

Neanche le dialettiche normali e sempre presenti all’interno di una maggioranza possono supplire a questa disponibilità. Lo si è visto bene con l’esperienza di Patto civico nella passata legislatura, una lista che avrebbe dovuto ‘condizionare’ l’attività amministrativa proprio rappresentando la vitalità e il contributo di alcune categorie economiche. Una promessa di rappresentanza che invece è venuta meno già all’indomani del voto. Così pure oggi, al di là delle differenze o delle somiglianze che si possano rintracciare con quella esperienza, certo non si può affidare la delega del rapporto con la società civile alla lista civica che ha appoggiato Sadegholvaad alle ultime elezioni. O all’accordo tra le ‘correnti’ del Pd che ha portato alla sua candidatura unitaria. Pensare che innestare qualche nuovo tema o qualche sensibilità civile sull’eredità delle giunte Gnassi possa esaurire questa necessità di apertura e di condivisione sarebbe perlomeno miope, e servirebbe solo a giustificare una nuova stagione di autosufficienza e autoreferenzialità.

In tutto questo è perlomeno incoraggiante che proprio il neoeletto sindaco abbia dedicato a questo tema una parte del suo intervento sulle linee guida del suo mandato.
Dopo aver parlato di una giunta più equilibrata al poprio interno ed esposto i riferimenti valoriali che la guideranno, ha infatti tratteggiato anche quale dovrebbe essere il compito dell’azione amministrativa e il suo metodo di azione: “favorire e sostenere la grande energia che la comunità sprigionerà, senza la pretesa di comandare, semmai affiancare in maniera intelligente e flessibile queste energie che vengono dai nostri concittadini.” Parole importanti, che speriamo trovino conferma nella capacità dell’Amministrazione di riconoscere non solo i problemi da risolvere ma anche i soggetti sociali ed economici con cui poterli affrontare, disponendosi a una funzione di indirizzo, di abbrivio, di regolamentazione e di controllo e non invece a una specie di autocrazia che risolva in sé e da sé ogni particolare della vita cittadina.

A ribadire il proprio atteggiamento, Sadegholvaad ha poi aggiunto che, il suo, sarà “un Comune che si aprirà senza alcun timore alla cittadinanza attiva e alla partecipazione”, perché “questa volta se ne uscirà tutti insieme, tenendo tutti dentro il presente e il futuro”.
Una dichiarazione dunque di stima verso i cittadini e che si allarga doverosamente a comprendere il tema sempre più drammatico dell’inclusione sociale. Vedremo presto se questo rispetto e questa preoccupazione saranno comunque unidirezionali (con un Comune che dispensa e concede) o se invece si tratta di una reale ‘cessione’ di potere.
La vera questione infatti – nel rapporto con la minoranza così come con le ‘energie positive’ della città – è se questa disponibilità si riduca solo a una questione di mediazione politica e di largizioni benevole; se cioè questo “aprirsi senza alcun timore” sia una concessione o invece parte integrante della propria responsabilità, connaturato alla propria idea di politica, addirittura necessario alla maggioranza per adempiere al proprio compito e per essere se stessa.

(rg)

Venerdì, 12 Novembre 2021 18:14

Il mestiere (e il rischio) dell’opposizione

Nell’ambito del ragionamento più generale svolto nell’articolo precedente (Un nuovo inizio e una domanda per la politica riminese), proviamo a declinare alcune osservazioni specifiche sul ‘mestiere’ dell’opposizione.

Che il suo compito consista nel controllo dell’attività amministrativa della maggioranza e, in prospettiva, nel ribaltamento del risultato alle prossime elezioni è cosa abbastanza ovvia. Ma così formulata si tratta ancora di una dichiarazione generica, che non aiuta a capire come l’opposizione debba interpretare questo ruolo. Una vaghezza sulla quale facilmente prevalgono le motivazioni più direttamente individuali, con i singoli consiglieri che - non essendo coinvolti in una prospettiva comune -  faranno a gara solo per apparire sui giornali e accelerare la propria carriera nel partito.

Se poi a qualcuno dovesse sembrare una questione inutile o addirittura scontata, provi a scorrere i giornali dei cinque anni appena passati e a rintracciare una qualche ragione organica e strategica nelle dichiarazioni dei vari consiglieri d’opposizione.

Ciò che colpisce prima di tutto è l’incapacità di allestire un coordinamento o almeno una qualche metodologia di lavoro comune; tanto che il commento alle delibere e alle scelte della giunta è sempre frutto della puntigliosità di qualche singolo, e sempre degli stessi. E anche se di alcuni non si può non riconoscere almeno l’applicazione, come si diceva a scuola, in fondo sembra una ripicca, il presidio del proprio quartiere o di un tema caro al proprio elettorato, e sempre la ricerca di una notorietà personale. Eppure un politico – guardando se stesso per primo – dovrebbe sapere che nessuno gradisce accodarsi a battaglie di altri e dunque, per avviare una battaglia comune e magari più efficace, quelle dichiarazioni, prima di spedirle ai giornali, andrebbero almeno condivise con gli alleati o addirittura concordate. Tra l’altro, questo individualismo è la riprova che proprio quelli che si ‘agitano’ di più sono in realtà i primi a non credere alla possibilità di una vittoria del proprio schieramento, puntando solo a convertire in preferenze la propria esposizione.

Se poi passiamo al merito, colpisce la difficoltà a misurarsi con l’atto di governo contestato, preferendo accodarsi a una protesta di cui si legge sui giornali, magari ammiccando a un interesse illegittimo o gridando all’incompetenza; molto più raramente esplicitando quali siano le ragioni di dissenso verso il criterio specifico assunto dalla maggioranza e ancora più raramente provando a ipotizzarne uno diverso, con motivazioni e una visione che possano costruire nel tempo un’immagine della città propria dell’opposizione (e una immagine dell’opposizione agli occhi dei cittadini).

Perché, e qui sta il nodo della questione, come si può chiedere un voto di cambiamento se non dimostrando, almeno in modo esemplificativo, di saper gestire la complessità della vita cittadina? Una capacità per niente scontata, perché non si tratta solo di imparare i meccanismi del consiglio comunale, di studiare i diversi argomenti e di manifestare il proprio dissenso, ma di costruire una prospettiva concreta di alternanza. E qui sta la parte di ‘rischio’ del mestiere dell’opposizione.

Il rapporto con la maggioranza e soprattutto con la parte di città che (oggi) si trova a collaborare con essa (che siano imprese profit o del terzo settore, categorie economiche, aggregazioni culturali o sportive, gruppi di cittadini) richiede infatti di saper distinguere tra le diverse ‘partite’ in corso, che non possono essere trattate tutte alla stessa maniera.
Se infatti di alcune si potranno evidenziare con forza i ritardi, gli sbagli, gli aspetti più ‘opachi’ o le forzature ideologiche (come una ciclabile che finisce contro un muro), evidenziando così la propria diversità radicale sui criteri adottati, su altre si potrà collaborare alla messa a punto delle varie risoluzioni, mostrando la propria capacità di mediazione, la propria visione, approfittando di esse per costruire relazioni, per entrare e comprendere mondi a cui si è estranei.
Ma tutto questo non è gratis. Nell’immediato si scontenta chi protesta, si lascia un vantaggio a chi approfitta di ogni protesta, non sempre ci si può vantare sui giornali di quanto si sta facendo. E poi ci vuole tanta pazienza: per trovare gli interlocutori e anche per lavorare insieme e in modo coordinato tra forze o correnti diverse.

Di certo, ripetere agli elettori che sono oppressi da un giogo insensato e non se ne rendono conto, e che per fortuna possono votare qualcuno che presto arriverà a liberarli è più facile. Fare opposizione senza pensare solo alla propria visibilità o, al più, al consenso immediato del proprio partito e, magari, in qualche modo contribuire a dare una risposta ai problemi della città è un esercizio faticoso, le cui modalità sono tutte da inventare, da modulare continuamente, ma rimane l’unico modo per convincere gli elettori.

Se alle ultime elezioni, ad esempio, qualcuno si fosse domandato chi avrebbe potuto essere nel centrodestra l’erede di Gnassi (e non come liberare la città da ‘un pericoloso e antipatico monarca’), almeno nella scelta della candidatura le cose sarebbero andate diversamente, e, quella scelta, sarebbe stata anche l’inizio di un lavoro pronto a durare cinque anni. Ma era troppo disonorevole e addirittura sconveniente ammettere di dover imparare dagli avversari; ammettere che non solo erano state fatte singole cose buone (affermazione che a denti stretti qualcuno ha fatto) ma che quello stesso sindaco così antipatizzante e individualistico era riuscito a incrociare un sentimento della città che ancora l’opposizione non ha imparato a riconoscere. Adesso dovrà iniziare in altro modo.

NB
È di oggi l’uscita del sindaco Sadegholvaad sulle dichiarazioni del presidente Draghi sul PNRR all’assemblea dell’ANCI, un commento di apprezzamento e di rilancio. Ma il governo attuale è composto anche da tante forze che oggi a Rimini sono all’opposizione. Non poteva qualcuna di esse cogliere l’occasione per far proprio quell’invito e quell’apertura per proporsi in modo credibile nella discussione sull’utilizzo delle tante risorse che dovrebbero arrivare anche qui a Rimini? Costringere la maggioranza a declinare una collaborazione sarebbe già un successo politico; incassare una disponibilità, altrettanto.

(rg)

L’insediamento del nuovo consiglio comunale, con tanti nuovi e anche giovani consiglieri, non può non essere guardato come l’occasione di un nuovo inizio per la politica cittadina; non solo per chi siederà fisicamente sui banchi della maggioranza e dell’opposizione, ma per la relazione stessa tra i riminesi e la politica.

Ed ecco dunque la domanda.

Siamo certi che questa relazione possa ancora fondarsi sulla convinzione dei diversi schieramenti in consiglio di rappresentare l’identità dei propri elettori e le loro preoccupazioni? E questo non solo per le loro mancanze, ma per la natura stessa dell’identità e delle aspettative dei cittadini cui essa si rivolge.
In tempi ormai antichi, infatti, una carica ideale condivisa motivava scelte di campo ‘definitive’ e la lotta per governare si portava dietro la vita e la cultura di un popolo intero, ma nel mondo di oggi, nel quale ognuno si ritrova costretto a fare i conti spesso solo con se stesso e con la paura che chiunque possa erodere le possibilità di cui dispone, la pressione sulla politica è sempre più emotiva e mutevole.
La stessa crescita dell’astensionismo non rappresenta che l’altra faccia di questa pressione e di questa pretesa; e la conquista della maggioranza, che i partiti ‘vendono’ come finalmente risolutiva, è vista come pretestuosa, solo un circolo vizioso, un potere che serve alla politica per alimentare se stessa.
D’altra parte, un po’ perché obbligata, un po’ perché condivide la stessa mancanza di legami generativi, la politica volentieri sceglie di rincorrere la velocità dei social e di preoccuparsi solo del consenso immediato, inseguendo ogni opinione o protesta senza una visione propria.

Così, volendo parlare alla politica (della società civile riparleremo), prima ancora dei risultati non possiamo che invocare le ragioni e le speranze di chi ha deciso di buttarsi nella ‘mischia’. Non per sollevare una questione morale o per distinguere comportamenti virtuosi da altri impropri o addirittura illegittimi, ma perché le ‘bandiere’ sventolate dai partiti hanno ormai perso quasi ogni valore di legame e dunque occorre domandarsi su cosa si possa fondare oggi questa nuova relazione.
Qui, infatti, nel punto in cui la politica può rinfacciare la propria ‘decadenza’ alla società civile e la società civile accusare la politica delle sue continue inadempienze, si apre la necessità di una rottura unilaterale, di qualcuno che per primo ponga un elemento nuovo; in qualche modo egli stesso un nuovo inizio.

Cosa accadrebbe, ad esempio, se un consigliere, invece di accodarsi alle ritualità e ai giochi di potere del partito, o invece di seguire l’onda delle emozioni prevalenti, da oggi rischiasse in prima persona l’avvio di questa relazione con chi fosse disponibile a farlo con lui, un piccolo gruppo, o grande, non importa; non per l’intelligenza dei pareri che potrebbe raccogliere, non per il potere che gli darebbe, ma solo perché lo sostenga esattamente in quell’impegno che si è dato?
Non funzionale a trovare i voti al partito o alla propria carriera, ma una esperienza di condivisione, quasi generativa, nel quale le ragioni personali che lo hanno portato alla politica siano rinnovate continuamente (una volta si chiamava popolo), attraverso la quale capire cosa sia ciò che lo distingue dall’avversario politico, quale sia il valore operativo reale e non retorico dei propri discorsi, quale la sua utilità.

Una strada lungo la quale ci si potrebbe anche domandare quale possa essere un nuovo modo di fare opposizione o di amministrare; se la minoranza debba fare le proprie scelte solo per provare a intralciare o sgambettare la maggioranza o se la maggioranza debba giocare a ‘nascondere’ i problemi che deve affrontare o gli esiti delle proprie decisioni solo per governare indisturbata.

Ma come sarebbe un errore pensare che, di fronte ai numeri attuali dell’astensionismo, questi discorsi siano solo un’utopia buonista e non un’urgenza drammatica, sarebbe un’altra grave svista credere che, nell’ambito di questa relazione, un cittadino del terzo millennio chieda e ricompensi con il proprio consenso solo soluzioni pratiche e immediate. Probabilmente invece chiede persone cui guardare, non appena militanti; chiede competenza, non solo schieramenti; chiede lealtà, non sotterfugi; chiede grandezza d’animo e di cuore, non calcolo politico. Perché anche lui ha bisogno di qualcuno che lo sostenga nella sua vita quotidiana, e chi non lo fa tornerà a votare solo quando potrà scegliere tra persone che si sfidano su questo e non imprigionate nelle regole della lotta per il potere.

(rg)

Forte di una consuetudine ben nota ai partiti, da Rifondazione di ieri alla Lega di oggi, anche il PD di Rimini si fa partito “di lotta e di governo”. E pur dopo l’accordo raggiunto, l’anima identitaria, dei valori e della tradizione, e quella del fare, che invece proclama autonomia e libertà di manovra, continuano a fronteggiarsi minacciose. 
Ma è solo un trucco. 
Nel senso che il punto di mediazione tra le due anime (a Rimini le chiamano “continuità e discontinuità”) non ‘casca’ mai fuori dal perimetro di controllo del partito e delle sue regole: solo una sorta di dialettica retorica, che non ne sposta la cultura e la concezione del proprio ruolo. Al massimo muove qualche poltrona.
A ben vedere, questo narcisismo di protesta e di governo, - oh, se si piacciono! - non fa che enfatizzare la smodata e ormai incontrollata autoreferenzialità della politica; un problema, peraltro, che riguarda anche l’opposizione di centrodestra.
Ad esempio.

Chiara Bellini, vicesindaco di lotta in pectore, invoca partecipazione per le scelte future. “La cittadinanza deve essere coinvolta prima, non dopo. Solo così le persone si sentiranno parte delle decisioni, anche quando quelle prese non saranno quelle sperate.” In realtà non è che, anche prima dell’era Gnassi, i cittadini contassero tanto. Basta pensare a quello che sarebbe stato il project financing dell’amministrazione Ravaioli, e che avrebbe dovuto rivoltare l’intero lungomare, con tanto tanto e tanto cemento, un grattacielo in prima linea, la rotonda in mare e immobili vari. Ma, a parte il passato, bisogna capire a quale partecipazione ci si riferisca.
Se il problema è la possibilità di esprimere un parere, gli strumenti tecnologici attuali possono autarci facilmente; e probabilmente basterebbe la pagina facebook del Comune. Ma dopo? Sopra una certa soglia di gradimento si procede; sotto, invece ci si ferma? Poi ci sono da considerare le competenze e i ‘meriti’. Esperti, intellettuali, mecenati, opinion leader, influencer, baroni e potenti vari, avranno certamente un impact factordiverso da quello di un ‘semplice’ cittadino. E dunque come calcolarlo?
L’impressione è che tutto – la visione, la protesta, la mediazione, il controllo della mediazione - nasca e debba consumarsi dentro “il partito”; e che insomma, né anarchici né libertari, i contendenti non stiano discutendo su come dare il potere al popolo ma solo dei rituali di compensazione interna, con il convincimento - mai venuto meno - che solo il “partito” sappia interpretare e guidare la città.

Questo risulta evidente anche quando si aprono, più o meno traumaticamente, degli spazi di rinnovamento. È successo ad esempio con l’implosione delle associazioni di categoria, nel momento in cui è stato chiaro come – nonostante continuassero a partecipare a tavoli istituzionali o a consigli d’amministrazione – presidenti, vicepresidenti e maggiorenti vari non fossero più in grado di rappresentare i loro associati. E quando questo rituale finalmente è venuto meno, anche grazie ai modi un po’ spicci del Gnassi sindaco, nient’altro però è stato cercato oppure offerto per sostituire quella rappresentanza farlocca. Anche considerando la ‘fiammata’ del piano strategico, la politica (o l’uomo solo, come vi piace) ha presto riempito tutti i vuoti non lasciando posto a nient’altro. E il problema è rimasto. 

Allo stesso modo, a destra, dopo tentativi più o meno onorevoli a ogni singola elezione di mettere in campo liste che rappresentassero ‘direttamente’ porzioni di società civile, questo giro chi ‘dà la carte’ ha praticamente fatto sapere da subito di non aver bisogno di suggerimenti e di idee da nessuno, che si sarebbe trovato da solo un civico da candidare, risparmiandosi anche i soliti piccoli ‘ricatti’ di una lista e di quell’altra. Come a dire, della società civile mi interessa soltanto che mi dia un candidato per vincere. 

Insomma.
Tra l’uomo solo al comando e il partito solo al comando, tra il governo e l’opposizione, al momento non si vede alcuna differenza. Il grado di apertura, contaminazione, disposizione a cedere potere alla comunità cittadina, è figlio dell’idea di politica che si frequenta e non delle regole che scandiscono la vita interna di un partito e neanche della sua relazione con gli amministratori. Non bastano. Così come non basta appoggiarsi a ogni refolo di protesta per dire che si è dalla parte dei cittadini.
In realtà la politica prima di porsi il problema della partecipazione, cioè di concedere lei ai cittadini una qualche forma di commento sulle proprie scelte, bontà sua, deve porsi di nuovo e molto lealmente la domanda sulla propria capacità di rappresentarla (e qui l’etimologia conta).
Ben prima che sull’analisi, la vera sfida si basa sulla capacità di ascolto; ben più che la ‘visione’ geniale, conta la conoscenza delle risorse e dei bisogni che ‘fanno’ una città. La politica, prima di essere una risposta ai problemi delle persone, delle famiglie, delle comunità, delle aziende, deve chiedere a quelle stesse persone, famiglie, comunità, aziende chi essa sia, a cosa serva. Un bel rischio, ma la città non è il sacco in cui svuotare le proprie idee, magari perché si è onesti (che serve) o perché si è intelligenti (che è comunque meglio) o anche competenti (che sarebbe il massimo). 
La città è il luogo di persone e di fatti a cui domandare tutti i santi giorni un aiuto, un esempio, un suggerimento che sostenga sia i valori che il fare (le due anime di cui sopra), da cui farsi sorprendere con idee e sentimenti inaspettati, che ci renda responsabili di una storia che ci precede; cui domandare come poter essere utili e a cui chiedere aiuto quando si ha bisogno. Se troveremo una risposta per noi, potremo dare una mano perché risponda anche a ogni altro. Turisti compresi.
Perché, come dice il solito Calvino (che chiunque si dedichi alla politica dovrebbe recitare a memoria come un giuramento), le città non sono «opera della mente o del caso, ma né l'una né l'altro bastano a tener su le loro mura. D'una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.» 

I rappresentanti del centrodestra riminese, riuniti questa mattina, hanno infine deliberato il nome del loro candidato sindaco.

“E’ deciso. Enzo Ceccarelli è il candidato sindaco più credibile, serio e capace per quell’area alternativa alla sinistra che punta ad amministrare Rimini per i prossimi anni. Abbiamo tutti preso il tempo necessario per una riflessione e siamo giunti tutti alla medesima conclusione. Puntiamo a vincere queste elezioni presentando una squadra di persone del mondo civico e politico capaci e autorevoli. A questa città gravata da troppi problemi irrisolti servono amministratori con provate competenze amministrative e esperienze imprenditoriali che diano la garanzia di un buon governo. Naturalmente le nostre porte sono aperte ad altre forze politiche e civiche che intendano condividere con noi questo percorso che consideriamo estremamente innovativo e di grande respiro. A giorni la conferenza stampa di presentazione del candidato sindaco”.

Così in una nota: Elena Raffaelli e Oscar Fabbri, rispettivamente responsabile provinciale e responsabile comunale della Lega; Augusta Montaruli, commissario provinciale Fratelli d’Italia; Lucio Paesani, Massimo Lugaresi e Claudio Mazzarino per ‘Noi amiamo Rimini’; Davide Frisoni e Cosimo Iaia per Frisoni con Rimini-Civici di Centrodestra.

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