Valutare i risultati di un’assemblea ecclesiale è sempre molto difficile. Si possono leggere attraverso lenti “politiche” o applicando schemi che funzionavamo perfettamente un po’ di anni fa. Si può fare, ma non si è certi di cogliere ciò che è realmente accaduto. Meglio allora affidarsi a quanto si è ascoltato nel momento di dialogo finale e soprattutto alle conclusioni del vescovo monsignor Francesco Lambiasi.
Per due giorni, nell’ultimo week end, 400 delegati della diocesi (sacerdoti, religiosi e laici) hanno cercato di delineare i tratti della “Chiesa che sogniamo” per poi “fare strada assieme”. Dopo aver visto e ascoltato, monsignor Lambiasi ha osservato che nella diocesi di Rimini “è stata superata la logica del confronto fra associazioni e movimenti, fra istituzione e carisma, fra progressisti e conservatori”. Chi conosce la storia della chiesa riminese dal post Concilio in poi sa bene che queste dialettiche hanno assunto spesso toni accesi e le varie categorie (progressisti e conservatori, per esempio) sono anche diventate schemi rigidi che di fatto hanno impedito ogni possibilità di ascolto e di dialogo. Non è certo la prima volta che la Chiesa riminese si è riunita in assemblea. Da quella storica e infuocata su La Chiesa e i problemi dell’uomo del 1976 a quella appena conclusa ci sono state molte occasioni di confronto e di scontro. Ma poi è accaduto qualcosa di nuovo? Si è fatto un cammino insieme? Il vescovo ha sottolineato che ora finalmente “le polemiche aspre sono cadute”. E certamente questo è un primo passo importante, anche se forse la ritrovata pace ecclesiale va riempita di contenuti. Anzi, di un metodo diverso, con l’avvertenza, come ha detto il vescovo, che “il diavolo è sempre all’opera” per vanificare e contrastare ciò che di buono emerge.
Le caratteristiche di questo metodo sono emerse chiaramente nelle sintesi finali che i cinque coordinatori dei temi generali (impegno politico e sociale, famiglia, educazione e cultura, poveri e integrazione, giovani) hanno presentato all’assemblea. Tutti hanno sottolineato la positività dell’esperienza vissuta nei due giorni: l’ascolto reciproco, la conoscenza dell’esperienza altrui, l’incontro con l’altro come arricchimento personale. Più apertura e meno pregiudizi, si potrebbe sintetizzare. È ciò che nell’attuale linguaggio ecclesiale viene chiamato sinodalità, con l’implicito e non detto giudizio che nel passato, nonostante le ripetute assemblee, non fosse realmente seguita. E tutti hanno chiesto che questo metodo dell’ascolto e del dialogo possa continuare. Va ricordato che prima dell’assemblea finale tutti hanno lavorato in piccoli gruppi di dieci, dodici persone al massimo, coordinate da un “facilitatore” che poi aveva il compito di riportare quanto emerso nel dialogo. Non è escluso che nelle sintesi dei facilitatori e poi nelle relazioni finali qualcosa o molto della freschezza di questo parlarsi insieme sia andato perduto o sia stato sbiadito.
Nell’assemblea finale qualche accento di novità comunque lo si è colto. Molto vivace, per esempio, la sintesi sui giovani proposta dal nuovo, e giovane, presidente dell’Azione Cattolica, Manuel Mussoni. Nella relazione sulla famiglia, è stato identificato un tratto comune nell’esigenza che si passi dal primato delle attività (le cose da fare, i programmi, le iniziative) al primato delle relazioni fra le persone. E questo primato dell’incontro e delle relazioni è stato trasversale a tutti i gruppi. Nella sintesi finale sul tema della povertà, fra gli altri punti, è stato detto che è attraverso l’incontro con il povero che avviene la conversione, che ognuno di noi è povero di fronte a Dio, che il compito dei cristiani non è risolvere tutti i problemi degli uomini ma provocare al riconoscimento della presenza di Dio. Da un altro punto di vista, nuova anche la relazione sulla politica, che un tempo avrebbe infiammato l’assemblea e che invece è stata ascoltata in tranquillo silenzio, anche quando faceva affermazioni (per esempio sul pluralismo delle scelte) che sono tutt’altro che assodate e pacifiche.
Un’altra esigenza emersa è quella di fare rete fra le diverse esperienze presenti in diocesi nei vari campi di attività. Questa domanda implica il riconoscimento che l’opera di un altro in qualche modo mi appartiene, che è una ricchezza da accogliere. E qui si presenta la sfida del futuro: valorizzare questa esigenza di fare rete senza ridurla ad un coinvolgimento ad iniziative comuni decise dall’alto.
Il vescovo ha invitato infine a prendere atto che ormai quella di Rimini è una Chiesa povera nei numeri, nelle persone e nelle strutture. Inutile affannarsi a pensare ad un lavoro che andava bene quando gli operatori erano 100 e adesso sono solo 10. Ed ha chiesto di porsi la “domanda urticante”: cosa pensa di noi cristiani chi ci osserva dall’esterno? Riprendendo papa Francesco, ha parlato dell’evangelizzazione che non avviene con il proselitismo ma per contagio. I cristiani come anfore piene di una Presenza che tracima.