Che ci fa un nutrito gruppo di persone, in una Rimini imbiancata e gelata da Burian, nella cripta della chiesa di San Giuseppe al Porto ad ascoltare una persona che vive in una baraccopoli di Buenos Aires? Per gran parte la presenza è un moto d’affetto, l’espressione di un’amicizia vecchia di decenni e resistente al tempo e alla lontananza fisica. Al fine della serata c’è in tutti la consapevolezza di aver ascoltato un racconto non appena interessante, ma prezioso per noi che viviamo nel lato opposto della “fine del mondo”.
Grande serata con Alver Metalli, 65 anni, giornalista da tempo in giro in ogni angolo dell’America Latina ed ora domiciliato nella Villa La Carcova che, detta così, sembra una rispettabile residenza signorile, in realtà è un agglomerato di quarantamila persone che vivono in una periferia urbana descrivibile solo con la parola degrado.
L’avventura di Alver Metalli comincia da Riccione, dove ancora studente fonda una libreria Ora Nona, dove abbonda la saggistica relativa al Terzo Mondo, e dove puntuale ogni mese arrivava da Cuba un pacco di Granma, la rivista ufficiale di Fidel Castro. A metà degli anni Settanta si occupa dei movimenti di liberazione nell’Africa coloniale portoghese. Poi è stato protagonista di Radio Riviera, inviato del settimanale Il Sabato, corrispondente della Rai per l’America Latina, vivendo in Messico, Uruguay e Argentina. Ora che vive in un luogo dove non sempre è facile avere la connessione a Internet e un po’ di calma per concentrarsi a scrivere, continua a fare il giornalista (i suoi scritti si trovano sui blog Terre d’America e su Vatican Insider) e realizza scoop: è stato il primo al mondo a dare la notizia del viaggio di papa Francesco a Cuba.
Ecco come Metalli ha descritto il luogo in cui ha scelto di vivere: “E’ come una favela brasiliana, la gente vi è arrivata da molte parti del paese durante la crisi del 2001. Si sono accampati e la sistemazione è diventata definitiva. Siamo vicini alla grande discarica di Buenos Aires e il 50 per cento degli abitanti vive andando a rovistare fra i rifiuti, parte fa il manovale per l’edilizia, le donne prestano servizio nelle famiglie benestanti della città. C’è una forte natalità, ovunque spuntano bambini. È una realtà dominata dalla violenza e dallo spaccio di droga. Si vedono anche ragazzini di otto dieci anni che usano la Paco, una droga ottenuta con i residui della lavorazione della cocaina. È una droga distruttiva, che induce alla violenza, si fa qualsiasi cosa per averla. Il territorio è diviso fra quattro bande, di notte si sentono sempre sparatorie, le fanno per marcare il territorio. Sono lì da quattro anni e non mi hanno mai minacciato. Forse non sono un estraneo che va e che viene, ma ho scelto di condividere la loro situazione”.
In inizio di serata ha mostrato un filmato in cui si vedono i ragazzini della Villa giocare a calcio guidati da un allenatore in carrozzella. Hanno vinto anche un torneo giocando nello stadio del mitico Boca. Le gambe dell’allenatore sono state messe fuori uso da sette colpi, anche lui era nel giro della droga, poi incontrando don Pepe Di Paola, il parroco della Villa, amico di papa Bergoglio, ha cambiato vita. “La droga porta degrado umano. – racconta Alver – Don Pepe ha pensato allo sport come mezzo di prevenzione, per dare una possibilità di una vita diversa ai ragazzi. Accogliendoli, poi ci si accorge di altri bisogni. C’è chi mangia una sola volta al giorno, ed eco la mensa. Chi non va più a scuola, ed ecco la scuola di arti e mestieri. In questo modo i ragazzi scoprono che c’è una strada diversa rispetto al degrado. Don Pepe ha disseminato la Villa di punti di incontro, di cappelle, il territorio è vasto e non ci sono strade, mezzi di trasporto. Incontra perone che non sono battezzate, cresimate o sposate. Celebra un fiume di battesimi. Un prete, una comunità che si avvicina, cambia veramente le cose. Sono testimone di come una presenza cristiana generi una speranza che fa alzare la testa, che fa riprendere in mano la propria vita e cerca di migliorarla. In questo ambiente di degrado ho visto rinascere un popolo”.
Da quest’esperienza alla concezione di papa Francesco sulla Chiesa in uscita, sulla Chiesa come ospedale da campo, il passo è breve. “Per Bergoglio – racconta Metalli – il punto di partenza è una condivisione reale, non un discorso sulla povertà. Lui le Villas le frequentava, io sono andato negli stessi luoghi per capire bene come è nato l’insegnamento del papa. Entrando nelle case ho visto appese alle pareti le foto di Bergoglio che battezzava il figlio. Tutti hanno il ricordo di lui che arrivava, senza preavviso, a piedi, perché l’autobus arriva solo fino a un certo punto. A volte andava a sostituire il parroco malato o andava alle feste espressioni della religiosità popolare delle diverse etnie presenti. L’immagine della Chiesa ospedale da campo l’ha usata la prima volta qualche mese dopo essere stato eletto papa, ma ce l’aveva già in testa. Significa una Chiesa che cura le ferite degli uomini, che si fa carico dell’umanità ferita. E quindi non si limita a dare un’aspirina a chi ha bisogno di ben altro. Lui non ha inventato la tradizione di questi preti che vivono nelle Villas , però l’ha promossa, erano otto oggi sono ventidue”.
A questo punto arriva per Alver Metalli la domanda cruciale: perché hai scelto di andare a vivere lì? “La povertà brutta, estrema, la marginalità, l’ho sempre avvertita come una grande sfida, come una provocazione. L’elezione di Bergoglio, la sua predicazione, l’hanno rinfiammata. Per motivi professionali avevo incontrato più volte padre Pepe, fino a quando non gli chiesi se aveva bisogno di una mano. E così quattro anni fa sono andato. La sfida è vedere come una posizione di fede diventa un fattore che umanizza la situazione. L’esperienza che io ho incontrato, con l’accento così acuto sul seguire un Cristo vivo, questa esperienza messa a contatto con una situazione umana di degrado è capace di umanizzarla, di iniziare un cammino in cui l’uomo ricomincia ad essere tale”.
Metalli racconta dei campeggi organizzati per i villeros, a San Clemente, sull’Oceano, e dello stupore di chi per la prima volta vede il mare. “E’ un esperienza educativa con cui certamente paragoneranno altre cose della loro vita”. Un paradigma di come l’incontro con il cristianesimo porta a riscoprire la propri umanità.
E infine arriva per Metalli una domanda ancor più impegnativa: il rapporto fra il carisma di don Giussani e la sequela di papa Francesco. “Bergoglio – spiega - probabilmente non ha avuto una conoscenza personale di Giussani, ma ha letto alcuni suoi libri. Quando ero a Buenos Ares il primo rapporto con lui è stato per invitarlo alla presentazione di un testo di Giussani. E lui ha sempre detto di aver tratto grande giovamento dalla lettura del fondatore di CL. Quindi ne conosce il pensiero e il carisma, lo apprezza e vuole che sia popolare. Questi miei quattro anni di presenza nella Villa possono essere letti come una sfida a rendere popolare il carisma di Giussani. Uno degli ultimi campeggi è stato con un’ottantina di uomini, fra i quaranta e i sessant’anni, quelli che vanno a rovistare fra l’ immondizia. Siamo stati qualche giorno in montagna. Non è facile parlare a persone povere, adulte; don Pepe ha questa capacità, ha detto per lui è stata la più bella esperienza in trent’anni di sacerdozio. Le mie categorie sono quelle di una persona che ha conosciuto Giussani, che si propone con questa sensibilità. Posso dire che c’è una passione per gli uomini e una maniera acuta di parlare di Cristo che arriva al popolo”.
Trentacinque anni fa un giovane Alver Metalli aveva abbracciato la lotta anticolonialista di alcuni paesi africani, ora ha abbracciato una diversa causa. Lui sorride e osserva: “L’impeto buono era lo stesso, adesso è più avveduto, pacifico e cosciente di ciò di cui l’uomo ha veramente bisogno”.
Valerio Lessi