Il treno dell’Expo è passato. Una sfida per Rimini
C’è senza dubbio una lezione che anche Rimini può trarre dal successo dell’Expo di Milano che ha chiuso i battenti il 31 ottobre. La prima è l’uscita da quel provincialismo che ci fa credere di essere l’ombelico del mondo, di avere noi da insegnare ai cinque continenti come si fa turismo e come si comunica la propria identità di destinazione. La visita ai padiglioni dell’Expo faceva immediatamente percepire che invece abbiamo molto da imparare e che forse è arrivato il momento di gettare l’occhio oltre il recinto di casa nostra per trovare idee, spunti e suggestioni per arrestare un possibile declino e per davvero riproiettarci sulla scena internazionale con una proposta innovativa.
Il sindaco Andrea Gnassi, che è uomo sensibile a questo modo di ragionare, è subito intervenuto per sottolineare che “i territori non sono autosufficienti né repubbliche a se stanti; hanno un’opportunità di crescere se dialogano tra loro a partire dal patrimonio storico artistico e dalle eccellenze ambientali quali elementi attrattori trasversali; la Riviera romagnola ha assoluta necessità di collegarsi al resto del mondo; indispensabili sono sistemi di mobilità che ‘diminuiscano’ tempi e percorsi”. Un’osservazione che nasce dal protagonismo – a suo dire - di Rimini nella mostra su Giotto nel padiglione Italia. Tale protagonismo, a ben vedere, è la presenza di Rimini su una cartina fra i luoghi in cui ha operato il maestro. La volontà di mettere il cappello su tutto, come fosse opera propria, a volte fa perdere il senso delle proporzioni. Ma non è di questo che vogliamo parlare. Il sindaco Gnassi sarà certamente passato dal cardo che portava all’albero della vita e sul quale si affacciava lo stand dell’Emilia Romagna. In quella piazzetta, da agosto a settembre, sono stati presenti i vari territori regionali che presentavano le loro eccellenze. Trentuno protagonisti scelti fra 79 che avevano presentato progetti. Purtroppo nel programma non c’era nulla di riferito a Rimini. La nostra città non aveva presentato progetti? O non è stato scelto? Certo è che abbiamo perso l’occasione per essere davvero protagonisti almeno per due settimane. Sempre a proposito dello stand dell’Emilia Romagna ci ha colpito che il grande logo fosse ExplorER (con ER che stava appunto per Emilia Romagna) e non Via Emilia, che è il progetto di comunicazione su cui la regione ha tanto investito proprio a proposito di Expo. Ma tant’è.
Un’altra nota a margine. Sarebbe interessante sapere quanti alberghi della Riviera hanno ospitato clienti italiani e stranieri che hanno acquistato uno dei famosi 80 pacchetti di Via Emilia o che hanno scelto la costa adriatica come punto di partenza per una visita a Expo. L’impressione è che si sia ripetuta la storia del Giubileo del Duemila, quando erano attese decine di migliaia di pellegrini diretti a Roma e non se ne vide nessuno.
Torniamo al punto di partenza: cosa c’è da imparare da Expo. Tutti conosciamo gli stand ultra gettonati che si sono distinti per file che duravano ore: Emirati Arabi, Azerbajan, Giappone e, in modo più limitato, Israele, Austria, Belgio, Corea. Sono tutti paesi che hanno colto l’opportunità di Expo per comunicare le loro eccellenze ad un pubblico internazionale utilizzando un’idea creativa capace di attirare le persone. Non una creatività fine a se stessa, ma finalizzata a comunicare un contenuto. Emblematico, da questo punto di vista, il caso del Giappone, che ha visto, specialmente negli ultimi giorni, file da cinque a sette ore. Evidentemente si era diffuso un tam tam, un passaparola secondo cui valeva la pena stare per ore in coda per vedere qualcosa di bello e di originale. E la fatica e la costanza alla fine venivano premiate. Il Giappone ha avuto l’idea originale non solo dal punto di vista architettonico (17 mila pezzi di legno incastrati fra loro senza usare un chiodo) ma anche sul piano della comunicazione. Il contenuto della diversità armoniosa (ambientale ed estetica) è stato sviluppato in un percorso dove erano sollecitati tutti i cinque sensi e che utilizzava tutte le moderne tecnologie audio-video (spesso tridimensionali) e tutti i linguaggi, compreso quello dello spettacolo. Una mezz’ora di immersione in un ambiente che a volte dava l’impressione di essere entrati in un video-gioco e che si concludeva con l’idea geniale del ristorante del futuro dove con le bacchette sul proprio tavolo si selezionano, con il touch screen, i cibi a seconda dei gusti e delle stagioni. Una sorta di mini parco tematico dove il concetto di Edutainment (insegnare divertendo) è sviluppato al massimo grado con soluzioni innovative e capaci di stupire. Chi ci è stato, capirà di cosa stiamo parlando.
Cosa c’entra tutto questo con Rimini? C’entra, eccome, perché qualcosa del genere ci manca. Siamo la Riviera dei parchi tematici, tutti però pensati e realizzati prima dello scoppio dell’era digitale. Un parco tematico realizzato con il linguaggio dello stand del Giappone (ma con un contenuto nostro, tipico) non avrebbe forse la capacità di attirare turisti anche nelle stagioni morte? Il Parco del Mare, oltre ad essere una palestra a cielo aperto, non potrebbe proporre sotto il suolo anche un’esperienza di questo genere? Un’esperienza unica, che si può fare solo venendo a Rimini.
È una sfida per tutta la classe dirigente locale, politica e imprenditoriale. Guardare cosa di nuovo si fa nel mondo, capire cosa attira le persone, e realizzare qualcosa di questo genere anche nella nostra città. Pensiamo che anche Rimini possa avere un guizzo di creatività geniale. Perché solo i giapponesi?